MILANO – L’incubo di vedere le aziende svizzere in ginocchio e i timori di un caos legato al blocco dei lavoratori italiani – per la maggior parte lombardi – ai valichi di frontiera. Per più di dodici ore, dalle 22 di sabato alla tarda mattinata di domenica, l’emergenza coronavirus e la conseguente stretta del Governo sugli ingressi e le uscite dalla Lombardia ha generato allarme e confusione anche in Canton Ticino.

Gli effetti del Dpcm varato da Roma non potevano non riflettersi sui 70mila frontalieri che ogni giorno – soprattutto dalle province di Como e Varese – si recano in Svizzera per lavoro: e infatti, inizialmente, sembrava che le limitazioni decise dal governo dovessero imporre uno stop. Con l’impossibilità per la forza lavoro italiana di attraversare il confine e raggiungere il Canton Ticino. Quali fossero le indicazioni da seguire non era chiaro nemmeno agli addetti ai controlli frontalieri. Ma, dopo ore di mediazioni e contatti Roma-Berna – con telefonate e chiarimenti nel corso della notte – la situazione si è sciolta: le limitazioni introdotte sulla Lombardia (e su altre 11 province) non vietano gli spostamenti per comprovati motivi di lavoro.

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Ma vediamo ora come si è arrivati allo sblocco dell’impasse nato dalla bozza del Dpcm. Quando il decreto ha blindato la Lombardia, la politica si è immediatamente attivata per la sorte dei 70mila frontalieri. “Questi lavoratori rappresentano un quarto della forza lavoro del Canton Ticino – spiega Alessandro Alfieri, senatore Pd, di Cunardo, provincia di Varese -. Nelle delicate ore notturne ho subito lavorato affinchè i ministeri di Roma e Berna si parlassero per chiarire le conseguenze del blocco. Alla fine abbiamo avuto le certezze che chiedevamo: i frontalieri che non possono utilizzare il telelavoro o lo smartworking potranno recarsi quotidianamente al lavoro oltreconfine, rientrando, appunto, nella fattispecie delle ‘comprovate esigenze lavorative’.”
C’è un aspetto importante. Molti frontalieri sono medici e infermieri. Gente insomma che dovrà aiutare la Svizzera a gestire l’ondata dell’emergenza coronavirus in arrivo anche lì. La preoccupazione, in questo caso, è legata al fatto che i contratti ticinesi non danno le stesse garanzie di quelli italiani: e questo potrebbe causare un effetto a catena. Che l’emergenza Covid-19 non si trasformi in una selezione per far restare la lavoro solo le figure di cui c’è bisogno, lasciando a casa gli altri. “Abbiamo chiesto alle autorità ticinesi di mettere in campo iniziative simili a quelle italiane per promuovere e facilitare il lavoro da casa anche in Canton Ticino – ha riferito Alfieri.
Va detto infine che gli svizzeri, prima ancora che Roma approvasse il Dpcm, si erano organizzati per tempo: già da venerdì L’Associazione industrie ticinesi aveva ragionato sulla possibilità di non fare uscire dalla Confederazione i lavoratori italiani, obbligandoli a soggiornare in Canton Ticino finchè l’emergenza coronavirus non fosse passata. Un piano sostenuto e chiesto anche dalla Lega ticinese, il partito identitario cantonale che da sempre vede i frontalieri italiani come un fastidio. Alla fine non ce n’è stato e non ce ne sarà bisogno. Almeno per ora.