AGI – Addio a quasi una pianta da frutto su cinque in Italia negli ultimi quindici anni con la scomparsa che coinvolge tutte le principali produzioni, dalle pere ai limoni, dalle pesche alle albicocche, dall’uva da tavola alle ciliegie, dalle arance alle clementine. È quanto emerge dall’analisi della Coldiretti “Salviamo l’ortofrutta italiana” presentata all’inaugurazione del Macfrut di Rimini.
La situazione peggiore – sottolinea la Coldiretti – si registra per le nettarine con la scomparsa di quasi la metà delle piante (-45%) come per l’uva da tavola (-43%), per le pere (-34%) ma è anche stata estirpata 1 pianta di pesco su tre (-33%), 1 pianta di mandarino su 5 (-20%) e ben il 16% degli alberi di arance mentre crescono in controtendenza solo i kiwi (+11%). Una strage di piante da frutto che sta provocando la desertificazione dei territori nelle regioni italiane con drammatici effetti sui consumi nazionali, economia, lavoro, clima, ambiente e salute degli italiani.
Complessivamente la superficie italiana coltivata a frutta si è ridotta a 516mila ettari con la perdita di oltre centomila ettari rispetto a 15 anni fa con conseguenze sul primato produttivo nazionale in Europa che si estende dai kiwi alle pere fresche, dalle ciliegie alle uve da tavola e alle albicocche.
Il settore ortofrutticolo nazionale garantisce all’Italia 440mila posti di lavoro, pari a oltre il 40% del totale in agricoltura, con un fatturato di 15 miliardi di euro all’anno tra fresco e trasformato, il 25% della produzione agricola totale, grazie all’attività di oltre 300mila aziende agricole che sono oggi a rischio, a causa di prezzi troppo bassi che non coprono i costi di produzione.
Un trend pericoloso anche dal punto di vista ambientale con degrado e all’abbandono che favorisce le alluvioni e le frane. A preoccupare è anche l’impatto climatico: le coltivazioni, come le foreste, possono generare benefici ecosistemici che non sono solo la rimozione di CO2 ma, ad esempio, il miglioramento della biodiversità e della qualità dell’aria, secondo un’analisi di Rete Clima.
Una pianta adulta è capace di catturare dall’aria dai 100 ai 250 grammi di polveri sottili e un ettaro di piante elimina circa 20 chili di polveri e smog in un anno. In altre parole quindi con la strage di piante da frutto è venuta a meno in Italia la capacità di assorbimento di ben 2 milioni di chili di inquinanti all’anno.
Sul settore pesano poi i rincari energetici che spingono i costi correnti per la produzione della frutta che arrivano ad aumentare del 42% con un impatto traumatico sulle aziende agricole. L’impennata dei costi di produzione ha colpito tutte le fasi dell’attività aziendale dai carburanti per la movimentazione dei macchinari alle materie prime, dai fertilizzanti agli imballaggi. Gli incrementi non hanno risparmiato neppure la plastica per le vaschette, le retine e le buste, la carta per bollini ed etichette, il cartone ondulato come il legno per le cassette.
Senza dimenticare gli effetti dei cambiamenti climatici e il moltiplicarsi degli eventi estremi con danni sui raccolti anche a causa degli insetti e dei patogeni alieni e le difficoltà di reperimento della manodopera.
A causa del surriscaldamento sono arrivati parassiti “alieni”, mai visti prima, che si sono accaniti sulle produzioni nazionali, dal cinipide galligeno che ha decimato le castagne alla Tristeza degli agrumi e molti altri come testimonia la recente la biblica invasione nel Nord Italia della “cimice marmorata asiatica”.
Ma a colpire il settore è anche la concorrenza sleale delle produzioni straniere, con la frutta Made in Italy stretta nella morsa del protezionismo da un lato e del dumping economico e sociale dall’altro.
Le pere cinesi Nashi, ad esempio, arrivano regolarmente nel nostro Paese – rivela Coldiretti -, ma quelle italiane non possono andare in Cina perchè non è stata ancora concessa l’autorizzazione fitosanitaria.
E finchè non è chiuso il dossier pere non si può iniziare a parlare di mele, perchè i cinesi affrontano un dossier alla volta. Ma porte sbarrate anche ai kiwi in Giappone perchè non è ancora completato il dossier fitosanitario aperto dal 2008, in barba all’accordo di libero scambio Jeta siglato dall’Unione Europea con il governo nipponico.
Alle barriere commerciali si aggiungono i danni causati dalla concorrenza sleale con quasi 1 prodotto alimentare su 5 importato in Italia che non rispetta le normative in materia di tutela della salute e dell’ambiente o i diritti dei lavoratori vigenti nel nostro Paese, spesso spinto addirittura da agevolazioni e accordi preferenziali stipulati dall’Unione Europea.
Un esempio sono le nocciole dalla Turchia, su cui pende l’accusa di sfruttamento del lavoro delle minoranze curde. Ma ci sono anche l’uva dell’Argentina e le banane del Brasile gravati da pesanti accuse del Dipartimento del lavoro Usa per utilizzo del lavoro minorile ma con i quali l’Ue ha comunque avviato l’accordo commerciale di libero scambio Mercosur.
“È necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute, secondo il principio di reciprocità” ha affermato il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini.
L’export di frutta fresca vale 3,8 miliardi che – continua Prandini – potrebbero aumentare se si riuscisse a superare il gap logistico e infrastrutturale con le opportunità offerte dal Pnrr per garantire trasporti efficienti sulla linea ferroviaria e snodi aeroportuali per le merci che ci permettano di portare i nostri prodotti rapidamente da nord a sud del Paese e poi in ogni angolo d’Europa e del mondo”.