AGI – Imane Fadil, la teste dell’accusa morta a 33 anni durante il processo,”oggi sarebbe delusa e arrabbiata, per lei sarebbe stato un colpo durissimo”. Lo dicono all’AGI la sorella più grande, Fatima, e il marito di lei, Cosimo Pasqualone, che hanno parole di grande amarezza per l’epilogo, almeno in primo grado, del Ruby ter. “La prima cosa che vogliamo fare è portare la sua salma dal cimitero di Milano, dov’è sepolta, alla sua terra d’origine, il Marocco, perché l’Italia è un Paese corrotto e non è degno di lei. E poi vogliamo fare nuovi esami sui suoi resti. Anche di Neruda si è saputo dopo decenni che era stato avvelenato”.
Nella sua requisitoria il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha voluto ricordare Imane Fadil con queste parole: “Era spaventata da un giro pericoloso e potente, ma ha sempre detto la verità”.
“Ci aspettavamo che finisse così – dice Fatima -. Lei era diversa dalle altre che con la minaccia di parlare si sono fatte versare dei soldi senza però dire niente. Imane era arrabbiata per i continui rinvii del processo, nell’ultima parte della sua vita diceva che avrebbe voluto andarsene dall’Italia”.
I familiari, che vivono in Svizzera, stanno aspettando che il giudice, dopo il parere favorevole della Procura, gli restituisca gli effetti personali di Imane, tra cui i telefonini e le bozze del libro che sono state sequestrate”. L’ex modella marocchina che sognava di diventare giornalista sportiva stava scrivendo un libro nei mesi precedenti alla morte avvenuta il primo marzo del 2019 dopo un mese di agonia all’ospedale Humanitas.
“Le bozze sono state sequestrate da tre anni – prosegue Pasqualone –. A costo di pubblicarcelo da soli su Amazon, vogliamo che quel libro veda la luce. E rivorremmo anche il suo passaporto, i suoi abiti, tutto quello che parlava di lei”. “Una cosa è certa: noi non l’abbandoneremo mai – concludono Fatima e il marito -. Vogliamo la verità sulla sua morte, quella giudiziaria non ci convince”.
L’indagine era partita da un’ipotesi di avvelenamento ed è stata poi archiviata perché dalle perizie è emerso che la ragazza morì per un’aplasia midollare e non sono state rilevate responsabilità dei medici coinvolti per eventuali ritardi nella diagnosi.