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Il yuan diventa maggiorenne: entra tra le valute di riserva del Fmi

Ott 1, 2016

MILANO – L’internazionalizzazione della Cina procede a piccoli passi. Gli addetti ai lavori vedono l’ingresso dal primo ottobre del Renminbi tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale – insieme a dollaro, euro, yen e sterlina – come la montagna che ha partorito il topolino. Una conquista formale, ma che dal punto di vista sostanziale non cambierà nulla, o quasi, nei rapporti tra Pechino e l’Occidente.

“E’ il piccolo risultato di un progetto nato molti anni fa” dice Franco Bruni, professore di teoria e politica monetaria internazionale all’Università Bocconi che poi spiega: “L’idea nasceva dalla possibilità che la Cina diventasse un azionista di maggior peso all’interno del Fmi accrescendo il suo ruolo nel contesto globale, ma questo non è mai accaduto. Alla fine è un maquillage per nascondere che il Fondo abbia ha funzione meno importante di quella che crediamo”.

Dal punto di vista tecnico, l’operazione segue una raccomandazione dello staff del Fondo monetario, secondo cui lo yuan soddisfa i requisiti di essere una moneta “libera” e ampiamente utilizzata nel commercio internazionale: il primo punto, però, è piuttosto controverso e quindi gli esperti sottolineano che pur essendo tecnici i criteri di ammissione al paniere, la scelta del Fmi è legata anche a considerazioni di tipo politico. Nonostante la Cina sia da tempo la seconda economia mondiale alle spalle degli Stati Uniti, Pechino è sottorappresentata nel capitale del Fondo monetario: l’aggiustamento delle quote approvato nel 2010 che riconosce il maggior peso globale di Pechino e di altre economie emergenti, è ancora bloccato dagli Usa che hanno potere di veto.

“L’ingresso nel paniere del Fmi è da una lato una compensazione alla Cina delle promesse non mantenute, ma dall’altro è un aiuto importante” spiega Bruni secondo cui si permette al renminbi di diventare una valuta più utilizzabile e “contemporaneamente si garantisce a Pechino la possibilità di continuare il suo processo di internazionalizzazione. Permettere alla Cina di partecipare maggiormente all’economia globale rappresenta un beneficio per tutti”.

Insomma, se il nuovo status del yuan rischia di rimanere molto simobolico, proprio per questo può essere letto come un tentativo da parte del Fondo di mantenere buone relazioni con Pechino. D’altra parte alcune delle recenti riforme economiche del Dragone sono state realizzate proprio in funzione di questo passaggio. “Eppure – prosegue il professore della Bocconi – dovremmo essere consapevoli di quanto sia importante la cooperazione internazionale. La crisi del 2008 scoppiò proprio per l’incapacità di governare insieme la globalizzazione. Da allora, però, i paesi si sono ulteriormente allontanati. Servirebbe una nuova, grande conferenza internazionale”.

Dal punto di vista pratico, l’inserimento dello yuan nel paniere ha alcune conseguenze pratiche: a cominciare dalla produzione di un graduale flusso di fondi sul renminbi da parte delle banche centrali, dei fondi sovrani e delle altre istituzioni multilaterali. La sola riallocazione dell’un percento delle riserve internazionali sullo yuan significherebbe un flusso di 80 miliardi di dollari l’anno.

Sullo sfondo resta poi il tema della fiducia nei confronti delle autorità cinesi da parte del mondo occidentale. Alimentata dalle recenti svalutazioni della moneta asiatica che hanno avuto ripercussioni su tutti i mercati. Ma Bruni non è d’accordo: “Le svalutazioni dipendono dalla diversificazione dei suoi interessi. Per questo è importante la politica. Liberalizzare i capitali permette di entrare e uscire dal paese, facendo così oscillare le valute. E poi non dimentichiamo che anche noi europei complichiamo la vita agli altri: la Cina avrebbe voluto portare le attività di clearing della sua moneta a Londra, ma poi Brexit ha cambiato tutti i piani”.

Secondo Bruni sarebbe stato meglio allargare prima i voti della Cina all’interno del Fmi e poi lavorare sulla moneta, ma fino a quando gli interessi non saranno convergenti una soluzione non sarà mai a portata: “Per aumentare il peso di Pechino basterebbe che l’Ue votasse unita, ma non credo che la Francia o altri vogliano rinunciare al proprio seggio. Sono divisioni che impediscono di allargare gli spazi altri paesi. A cominciare dalla Cina”.

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