AGI – Il problema del traffico a Roma è nato duemila anni fa, quando la Città Eterna era abitata dal popolo che regalò a tutto il mondo allora conosciuto 100.000 chilometri di strade fatte a regola d’arte: è una delle tante curiosità che si scoprono nel “Bar di Roma Antica”, attraverso i documentari di Roberto Trizio diventati un autentico ‘cult’ su Internet. In origine la griglia base delle città romane – linee rette che si incrociavano sul Foro, il centro città, e le strade tonde che seguivano il perimetro delle mura, una sorta di raccordo anulare ‘ante litteram’ – era stata pensata per snellire il traffico di pedoni, lettighe e carri, spiega Trizio.
Il sacco di Brenno
Fu il sacco dei galli di Brenno, nel 390 avanti Cristo, a complicare tutto: Roma fu ricostruita in fretta e furia e ogni nuovo imperatore iniziò a cambiare assetto alla città senza ordine preciso, costruiva là un tempio, là un palazzo, senza nessun piano regolatore. Fu caos totale. A risolvere il problema ci provò Giulio Cesare nel 45 AC: la sua Lex Iulia Municipalis fu il primo vero codice della strada del mondo antico. Criteri base: carri vietati dall’alba al tramonto, con pochissime eccezioni, e Foro sempre off limits. Ma di notte si scatenava l’inferno: le ruote dei carri che portavano in città merci varie, a partire dal cibo, o che ritiravano i rifiuti lungo le strade per portarla oltre le mura facevano un rumore insopportabile.. Lo scrive Marziale, che si trasferì sul Gianicolo per trovare pace.
Le pillole di Trizio
Dalle ‘pillole’ di Trizio, documentari di 10-20 minuti introdotti dal saluto “Ave legionari”, è possibile riscoprire l’attualità del mondo romano che ancora oggi fa scuola. “I romani, sotto Marco Aurelio, avevano delle leggi sull’adozione che erano straordinariamente avanzate“, ha ricordato lo studioso milanese, titolare di una agenzia di reputazione online e di sicurezza informatica, “le leggi dei romani sugli schiavi erano più avanzate di quelle degli Usa nel 1940. L’acquedotto di Roma venne superato solo da quello di New York nel 1926. Sostanzialmente, non avevano problemi strutturali di razzismo, anche se potevano esserci dei pregiudizi. L’apartheid non lo avrebbero nemmeno capito, noi ci abbiamo combattuto fino a Mandela e ci combattiamo ancora. Per questi motivi i romani sono attuali e possono darci ancora insegnamenti”.
Basti pensare al capolavoro degli acquedotti, 13 soltanto quelli che servivano Roma. La loro realizzazione richiedeva lunghe ricerche, assaggi e sperimentazioni e poi perfetti calcoli di pendenza (la media doveva essere del 2 per mille), la depurazione attraverso le vasche di sedimentazione e la protezione delle condutture dalle intemperie. E ancora gallerie, archi e la tecnica rivoluzionaria del sifone invertito nelle valli più profonde.
Tra i documentari con più visualizzazioni c’è quello in cui ci si interroga se i legionari romani soffrissero di disturbo post traumatico da stress. Cornelio Celso, enciclopedista e medico ai tempi di Augusto e di Tiberio, accenna a una pazzia senza febbre, caratterizzata da insonnia e irritabilità. Stessi sintomi del generale Caio Mario, che – dopo aver guerreggiato coi germani – stanco e perseguitato da incubi, diventò alcolista. Ma in realtà pare che questi fossero casi rari: le lesioni alla testa aumentano l’insorgere di questi disturbi, ma i legionari erano ben protetti dagli elmi.
Un’altra curiosità soddisfatta dal “Bar di Roma antica” sono i requisiti per diventare legionari. Per prima cosa bisognava saper marciare: l’iter iustum, la marcia regolare, prevedeva 30 km al giorno: Roma centro-Fiumicino, per intendersi; o Milano-Lodi. Poi bisognava saper portare pesi, soloa la sàrcina era un carico tra i 20 e i 50 chili. E ancora: bisognava saper costruire un accampamento. Che non era una piccola cosa: in media ospitava circa 24mila soldati. Più o meno gli abitanti di Frascati o Ventimiglia. Poi certo, sì, bisognava saper combattere, con prudenza, con ordine e in formazione: da veri professionisti.