In fondo era solo un amorazzo estivo. Ma ricordate che bello? Che slancio Michele Emiliano, rubicondo presidente pugliese, quando diceva che quell’opera avrebbe colpito “al cuore il nostro turismo”, con i suoi cantieri che “sembrano Auschwitz”. Il M5s poi lo definiva un “ecomostro”, dal “violento impatto ambientale”, voluto da “speculatori” che minacciavano “di rovinare una delle più belle coste del Salento”. I cuori degli attivisti No Tap, contrari al metanodotto che dall’Azerbaigian porta il gas in Salento, andavano a fuoco.
Un investimento “inutile” che avrebbe deturpato per sempre il mare caraibico di San Foca. Proprio su quelle spiagge era nato l’amore tra grillini e No Tap. La tremenda cotta per quel Dibba ribelle che sul palco a San Foca diceva “quest’opera ve la blocchiamo in due settimane”. E invece i militanti si sono ritrovati sedotti e abbandonati a leccarsi il sale e le ferite – quel gusto un po’ amaro, di cose perdute.
Le tappe successive sono note: l’allora ministra Barbara Lezzi che, dossier costi-benefici alla mano, si prende “36 ore per decidere”. Telefonami tu. Teniamoci in contatto. E alla fine la retromarcia: il Tap s’è fatto, sotto il governo Conte.
Ma quindi, la devastazione ambientale? Che cos’è successo alle coste di smeraldo? Alle immense praterie di posidonia e cymodocea, le piante marine che sarebbero state sterminate dalla posa del tubo sul fondale? A quanto pare sono sempre lì, più rigogliose che mai: a certificarlo, per il secondo anno di fila, la Bandiera Blu assegnata a San Foca dalla ong internazionale Fee (Foundation for Environmental Education). Una delle certificazioni più ambite dai territori rivieraschi, una sorta di bigliettino da visita da esibire a cittadini e turisti, che riguarda la qualità delle acque negli ultimi quattro anni, oltre a quella di servizi e buone prassi ambientali. E allora dai, tutti al mare, pronti per nuovi amori. Anche se siete stati No Tap, fa niente.