• 27 Novembre 2024 0:22

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Il mito di Bobby Fischer a 80 anni dalla nascita

Mar 9, 2023

AGI – “A undici anni diventai bravo”. È il 1954, Bobby Fischer è a New York e, improvvisamente, poco più di un bambino, si accorge di aver trovato ciò per cui vale la pena vivere. Gli scacchi, nient’altro. Solo giocare, imparare. Essere ‘bravo’, per davvero. La sua, del resto, è una situazione difficile. Il padre assente (chi è, per davvero?). La madre, single, lavora tutto il giorno per assicurare un futuro ai figli e Bobby si ritrova a passare tanto tempo con la sorella. Almeno fino alla comparsa della famosa prima scacchiera, arrivata in casa per caso, con un libretto di istruzioni che si trasforma presto in una vera e propria Bibbia. È un quadro in bianco e nero quello di casa Fischer. Come gli scacchi. Un’immagine che resiste anche oggi, nel giorno dell’ottantesimo anniversario della sua nascita, il 9 marzo del 1943, a Chicago.

Bobby Fischer, amato e odiato, controverso e geniale, è ancora una leggenda, per molti il giocatore più forte mai comparso sulla faccia della Terra. Nonostante i capricci, le manie di persecuzione e le sue posizioni estreme, tra antisemitismo e maschilismo. La sua storia è quella di un enfant prodige che fatica a trovare un posto nel mondo. Una parabola che cresce in fretta e, altrettanto in fretta, si eclissa.

Un declino, il suo, umano e non scacchistico, che lo condurrà alla morte, avvenuta poco più di 15 anni fa, nella solitudine dei ghiacci d’Islanda, anch’essa terra amata e odiata, rifugio dalle vendette dell’FBI e, allo stesso tempo, dimora di spiriti e fantasmi.

Ci sono frasi che più di altre possono raccontare il tormento di Bobby Fischer, incapace di scindere la sua vita dal gioco. Molte di queste sembrano innocue ma nascondono, nello sfondo della sua intrattabile malinconia, un’incapacità di comprendere il mondo. “Il punto di svolta nella mia carriera venne quando realizzai che il Nero dovrebbe giocare per vincere invece che destreggiarsi per il pareggio”. Insomma, c’è chi si accontenta e chi, guidato dalle proprie ambizioni, punta solo a sconfiggere l’avversario. Bobby apparteneva a questa seconda categoria tanto da vivere, ogni match, come uno scontro all’ultimo pedone.

“Gli scacchi sono una guerra sulla scacchiera. L’obiettivo è distruggere la mente dell’avversario”. Il problema è che Fischer pretendeva spesso di scegliere il campo di battaglia, le condizioni di gioco, la posta in palio. Ed era capace di non presentarsi alla scacchiera in caso di rifiuto. Un incubo per gli organizzatori dei tornei. Lo sanno bene a Reykjavík. Lo sa bene Boris Spassky, suo avversario nel match valido per il titolo di campione del mondo giocato nel 1972. “Il match del secolo”, come fu ribattezzato poi. Lo sa persino Kissinger che, come leggenda dice, lo chiamò più volte per portarlo alla ragione.

Lo sanno bene i sovietici, in generale, che in quegli anni dominavano il mondo degli scacchi e furono detronizzati dall’unico scacchista, autodidatta e solitario, capace di opporre loro resistenza. Un americano, in piena Guerra Fredda. Per molti è questo il motivo per cui, ancora oggi, si scrive, si racconta, si parla di Bobby Fischer. Quell’impresa ha pochi eguali nella storia dell’umanità, non solo in quella degli scacchi.

Nel 1962, al Torneo dei Candidati che svolse ai Caraibi, sfidò la supremazia sovietica denunciando le patte ‘accordate’ tra compagni di spogliatoio e portando alla luce un sistema che favoriva la scuola di Mosca. I sovietici facevano squadra per ‘eliminare’ i rivali e poi per giocarsi il titolo. Bobby non ci sta. Anche se è da solo a schierarsi contro il muro russo. 

I meriti

I successi di Fischer ‘scacchista’ sono così tanti che non è facile elencarli. Resta l’unico giocatore nato in America (Steinitz, vittorioso nel 1888, era stato naturalizzato) ad aver vinto il titolo di Campione del Mondo. È stato per 8 volte campione nazionale e nell’edizione del 1963-64 vinse tutte le partite. Dimostrò il suo talento nei principali tornei in giro per il mondo, stupendo per il suo stile, i suoi tic, la sua psicologia a volte infantile e la sua capacità di sfruttare ogni vantaggio, anche il più piccolo, sulla scacchiera. Senza pietà o tentennamenti. Divenne Grande Maestro a 15 anni, ai suoi tempi il più precoce.

Il tutto con lo stesso mantra che risuonava nel cervello: “Ciò che distingue i giocatori veramente forti, è che continuano a insistere, e a insistere, fino a quando non raggiungono il loro obiettivo“. Ed è forse questo il motivo che lo spinse a smettere di giocare, a parte qualche eccezione, dal 1975 in poi. Tagliare un traguardo così importante, aggiudicarsi il trofeo di giocatore più forte al mondo, e poi non sapere cosa fare, se non continuare a combattere con i nemici creati dalla propria, distorta, mente. Se non avesse vinto, forse, avrebbe giocato fino a tarda età. 

I demeriti dell’altro Fischer

Sono altrettanto assordanti. L’uomo in lotta contro tutti, ossessionato dalle proprie origini ebree, in guerra con la patria, i suoi simboli, le sue ‘catene’. Uno scontro, quello con i servizi segreti statunitensi, iniziato con le indagini sulla madre e i suoi presunti rapporti con i sovietici, che trova il suo apice nel 1992 quando, in accordo con Spassky, accetta di giocare in Jugoslavia, a Budua, con un ingente montepremi. Una sorta di rematch della sfida islandese.

Il Paese ospitante, però, si trovava sotto embargo da parte dell’ONU e Fischer, in quell’occasione, sputò sopra a un documento del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America che gli proibiva di giocare in terra balcanica. Ma anche l’apparizione di Bobby fece scalpore. Non era più l’undicenne che viveva a New York e che aveva scoperto di essere maledettamente bravo. Si presentò con una lunga barba bianca, stile ‘santone’, appesantito e con gli occhi sempre un poco esasperati.

Con quel gesto, e quell’aspetto, aveva oltrepassato ogni limite, anche per il “pazzo” Bobby Fischer. Da allora fu un escalation. La fuga in Asia, i complotti fantasiosi di origine giudaica, la gioia espressa per gli attacchi dell’11 settembre, le sue posizioni contro le donne per lui incapaci di giocare a scacchi. Fino all’arresto in Giappone, nel 2004, all’aeroporto di Narita e il salvataggio da parte dell’Islanda che gli offre un passaporto e una casa. La sua ultima, tra solitudine e follia. La sua tomba è ancora lì, in un piccolo centro di appena 6 mila anime, meta di pellegrinaggio per appassionati e curiosi.

Ma perché Fischer è considerato un rivoluzionario del gioco?

Per spiegarlo si possono prendere in prestito le parole di Garry Kasparov, contenute in un articolo del 2011 pubblicato sul ‘New York Review Of Book’: “Fischer studiava costantemente e in maniera ossessiva, analizzava ogni match dei grandi maestri per cercare nuove idee e migliorarsi. Leggeva ossessivamente libri e riviste. Arrivò al punto di imparare il russo per poter ampliare le fonti a sua disposizione. Studiava ogni avversario, mossa dopo mossa, senza tralasciare alcun dettaglio“.

E non solo. “Il fatto è che giocava ogni partita con una intensità estrema, come se fosse l’ultima. È il suo spirito combattivo che i suoi contemporanei ricordano soprattutto di lui come giocatore”. Tra le sue aperture preferite ci sono sicuramente la Ruy Lopez (spagnola) e la difesa siciliana ma, in generale, era un giocatore dotato di grande intuizione e di una memoria eccezionale, capace di analizzare in profondità le possibile mosse e le linee più probabili che l’avversario avrebbe potuto prendere in considerazione.

Conosceva gli schemi ma, soprattutto, il modo per uscirne e portare il rivale su campi nuovi e inaspettati. Ma era soprattutto uno scacchista che predisponeva la propria mente alla novità. Non è un caso che, negli anni ’80, propose una variante degli scacchi, il ‘Fischer Random Chess’ o gli scacchi 960, caratterizzati da una disposizione ‘casuale’ e innovativa di molti pezzi. Il suo obiettivo era quello di limitare fortemente la teoria dell’apertura e costringere i giocatori a fare affidamento sul talento e sulla creatività. 

Sono passati 80 anni dalla sua nascita e ancora vengono pubblicate nuove opere, in nuovi formati, che lo riguardano. L’ultima è una graphic novel di prossima uscita, molto attesa, dal titolo “Black & White: The rise and Fall of Bobby Fischer”, scritta da Julian Voloj e illustrata da Wagner Willian. Bianco e nero. Disegni e dialoghi. Il folle e lo scacchista. Ma in fondo, sempre e comunque, Bobby Fischer.  

    

AGI – “A undici anni diventai bravo”. È il 1954, Bobby Fischer è a New York e, improvvisamente, poco più di un bambino, si accorge di aver trovato ciò per cui vale la pena vivere. Gli scacchi, nient’altro. Solo giocare, imparare. Essere ‘bravo’, per davvero. La sua, del resto, è una situazione difficile. Il padre assente (chi è, per davvero?). La madre, single, lavora tutto il giorno per assicurare un futuro ai figli e Bobby si ritrova a passare tanto tempo con la sorella. Almeno fino alla comparsa della famosa prima scacchiera, arrivata in casa per caso, con un libretto di istruzioni che si trasforma presto in una vera e propria Bibbia. È un quadro in bianco e nero quello di casa Fischer. Come gli scacchi. Un’immagine che resiste anche oggi, nel giorno dell’ottantesimo anniversario della sua nascita, il 9 marzo del 1943, a Chicago.
Bobby Fischer, amato e odiato, controverso e geniale, è ancora una leggenda, per molti il giocatore più forte mai comparso sulla faccia della Terra. Nonostante i capricci, le manie di persecuzione e le sue posizioni estreme, tra antisemitismo e maschilismo. La sua storia è quella di un enfant prodige che fatica a trovare un posto nel mondo. Una parabola che cresce in fretta e, altrettanto in fretta, si eclissa.
Un declino, il suo, umano e non scacchistico, che lo condurrà alla morte, avvenuta poco più di 15 anni fa, nella solitudine dei ghiacci d’Islanda, anch’essa terra amata e odiata, rifugio dalle vendette dell’FBI e, allo stesso tempo, dimora di spiriti e fantasmi.
Ci sono frasi che più di altre possono raccontare il tormento di Bobby Fischer, incapace di scindere la sua vita dal gioco. Molte di queste sembrano innocue ma nascondono, nello sfondo della sua intrattabile malinconia, un’incapacità di comprendere il mondo. “Il punto di svolta nella mia carriera venne quando realizzai che il Nero dovrebbe giocare per vincere invece che destreggiarsi per il pareggio”. Insomma, c’è chi si accontenta e chi, guidato dalle proprie ambizioni, punta solo a sconfiggere l’avversario. Bobby apparteneva a questa seconda categoria tanto da vivere, ogni match, come uno scontro all’ultimo pedone.
“Gli scacchi sono una guerra sulla scacchiera. L’obiettivo è distruggere la mente dell’avversario”. Il problema è che Fischer pretendeva spesso di scegliere il campo di battaglia, le condizioni di gioco, la posta in palio. Ed era capace di non presentarsi alla scacchiera in caso di rifiuto. Un incubo per gli organizzatori dei tornei. Lo sanno bene a Reykjavík. Lo sa bene Boris Spassky, suo avversario nel match valido per il titolo di campione del mondo giocato nel 1972. “Il match del secolo”, come fu ribattezzato poi. Lo sa persino Kissinger che, come leggenda dice, lo chiamò più volte per portarlo alla ragione.
Lo sanno bene i sovietici, in generale, che in quegli anni dominavano il mondo degli scacchi e furono detronizzati dall’unico scacchista, autodidatta e solitario, capace di opporre loro resistenza. Un americano, in piena Guerra Fredda. Per molti è questo il motivo per cui, ancora oggi, si scrive, si racconta, si parla di Bobby Fischer. Quell’impresa ha pochi eguali nella storia dell’umanità, non solo in quella degli scacchi.
Nel 1962, al Torneo dei Candidati che svolse ai Caraibi, sfidò la supremazia sovietica denunciando le patte ‘accordate’ tra compagni di spogliatoio e portando alla luce un sistema che favoriva la scuola di Mosca. I sovietici facevano squadra per ‘eliminare’ i rivali e poi per giocarsi il titolo. Bobby non ci sta. Anche se è da solo a schierarsi contro il muro russo. 
I meriti
I successi di Fischer ‘scacchista’ sono così tanti che non è facile elencarli. Resta l’unico giocatore nato in America (Steinitz, vittorioso nel 1888, era stato naturalizzato) ad aver vinto il titolo di Campione del Mondo. È stato per 8 volte campione nazionale e nell’edizione del 1963-64 vinse tutte le partite. Dimostrò il suo talento nei principali tornei in giro per il mondo, stupendo per il suo stile, i suoi tic, la sua psicologia a volte infantile e la sua capacità di sfruttare ogni vantaggio, anche il più piccolo, sulla scacchiera. Senza pietà o tentennamenti. Divenne Grande Maestro a 15 anni, ai suoi tempi il più precoce.
Il tutto con lo stesso mantra che risuonava nel cervello: “Ciò che distingue i giocatori veramente forti, è che continuano a insistere, e a insistere, fino a quando non raggiungono il loro obiettivo”. Ed è forse questo il motivo che lo spinse a smettere di giocare, a parte qualche eccezione, dal 1975 in poi. Tagliare un traguardo così importante, aggiudicarsi il trofeo di giocatore più forte al mondo, e poi non sapere cosa fare, se non continuare a combattere con i nemici creati dalla propria, distorta, mente. Se non avesse vinto, forse, avrebbe giocato fino a tarda età. 
I demeriti dell’altro Fischer
Sono altrettanto assordanti. L’uomo in lotta contro tutti, ossessionato dalle proprie origini ebree, in guerra con la patria, i suoi simboli, le sue ‘catene’. Uno scontro, quello con i servizi segreti statunitensi, iniziato con le indagini sulla madre e i suoi presunti rapporti con i sovietici, che trova il suo apice nel 1992 quando, in accordo con Spassky, accetta di giocare in Jugoslavia, a Budua, con un ingente montepremi. Una sorta di rematch della sfida islandese.
Il Paese ospitante, però, si trovava sotto embargo da parte dell’ONU e Fischer, in quell’occasione, sputò sopra a un documento del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America che gli proibiva di giocare in terra balcanica. Ma anche l’apparizione di Bobby fece scalpore. Non era più l’undicenne che viveva a New York e che aveva scoperto di essere maledettamente bravo. Si presentò con una lunga barba bianca, stile ‘santone’, appesantito e con gli occhi sempre un poco esasperati.
Con quel gesto, e quell’aspetto, aveva oltrepassato ogni limite, anche per il “pazzo” Bobby Fischer. Da allora fu un escalation. La fuga in Asia, i complotti fantasiosi di origine giudaica, la gioia espressa per gli attacchi dell’11 settembre, le sue posizioni contro le donne per lui incapaci di giocare a scacchi. Fino all’arresto in Giappone, nel 2004, all’aeroporto di Narita e il salvataggio da parte dell’Islanda che gli offre un passaporto e una casa. La sua ultima, tra solitudine e follia. La sua tomba è ancora lì, in un piccolo centro di appena 6 mila anime, meta di pellegrinaggio per appassionati e curiosi.
Ma perché Fischer è considerato un rivoluzionario del gioco?
Per spiegarlo si possono prendere in prestito le parole di Garry Kasparov, contenute in un articolo del 2011 pubblicato sul ‘New York Review Of Book’: “Fischer studiava costantemente e in maniera ossessiva, analizzava ogni match dei grandi maestri per cercare nuove idee e migliorarsi. Leggeva ossessivamente libri e riviste. Arrivò al punto di imparare il russo per poter ampliare le fonti a sua disposizione. Studiava ogni avversario, mossa dopo mossa, senza tralasciare alcun dettaglio”.
E non solo. “Il fatto è che giocava ogni partita con una intensità estrema, come se fosse l’ultima. È il suo spirito combattivo che i suoi contemporanei ricordano soprattutto di lui come giocatore”. Tra le sue aperture preferite ci sono sicuramente la Ruy Lopez (spagnola) e la difesa siciliana ma, in generale, era un giocatore dotato di grande intuizione e di una memoria eccezionale, capace di analizzare in profondità le possibile mosse e le linee più probabili che l’avversario avrebbe potuto prendere in considerazione.
Conosceva gli schemi ma, soprattutto, il modo per uscirne e portare il rivale su campi nuovi e inaspettati. Ma era soprattutto uno scacchista che predisponeva la propria mente alla novità. Non è un caso che, negli anni ’80, propose una variante degli scacchi, il ‘Fischer Random Chess’ o gli scacchi 960, caratterizzati da una disposizione ‘casuale’ e innovativa di molti pezzi. Il suo obiettivo era quello di limitare fortemente la teoria dell’apertura e costringere i giocatori a fare affidamento sul talento e sulla creatività. 
Sono passati 80 anni dalla sua nascita e ancora vengono pubblicate nuove opere, in nuovi formati, che lo riguardano. L’ultima è una graphic novel di prossima uscita, molto attesa, dal titolo “Black & White: The rise and Fall of Bobby Fischer”, scritta da Julian Voloj e illustrata da Wagner Willian. Bianco e nero. Disegni e dialoghi. Il folle e lo scacchista. Ma in fondo, sempre e comunque, Bobby Fischer.       

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