Nei primi giorni di aprile del 1907 il pittore tedesco Ernst Ludwig Kirchner si trovò per caso a passeggiare nel quartiere di Charlottenburg a Berlino. E fu altrettanto per caso che sulla Tauentzienstraße si imbatté in un tripudio di lucine e festoni “prima che un intenso profumo di vaniglia e fiori di arancio invase le mie narici”. Davanti a lui c’era un palazzone immenso di cemento armato “pieno di finestrelle illuminate e un brulicare di gente per bene e ben vestita”. Quando entrò “un turbine di sbrilluccichii mi invase e mi ritrovai a vagare senza meta in un trionfo di vetri e cristalli che amplificavano la luce e la rendevano intensa e invadente”. Per Ernst Ludwig Kirchner fu un’esperienza allo stesso momento “estasiante e conturbante”, perché “mai avevo visto nulla di simile. Non era esibizione del lusso, era qualcosa di assai diverso”, ricordò al quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung, verso la metà degli anni Trenta. “Paradossalmente un certo uso del colore non mi è stato ispirato dai grandi della pittura o dai compagni d’arte della Die Brücke, ma da un centro commerciale”.
Quel centro commerciale era ed è il Kaufhaus des Westens, per brevità chiamato KaDeWe e ancora oggi lo si trova sulla Tauentzienstraße a Berlino. Se la passa mica bene il KaDeWe ora. La società che controlla il grande magazzino lunedì ha presentato un’istanza di fallimento. Era da mesi che i fornitori non venivano pagati e quando venivano pagati era soltanto perché venivano minacciati di azioni legali.
E sì che il KaDeWe non starebbe nemmeno male finanziariamente. Almeno secondo quanto riferito dall’amministratore delegato Michael Peterseim, che a novembre aveva parlato di un fatturato stimato per il 2023 di circa 800 milioni di euro. Dati non verificabili però visto che il gruppo non presenta un bilancio pubblico dal 2016. La possibile insolvenza del gruppo KaDeWe sembra essere legata non tanto ai guadagni del centro commerciale ma ai guai finanziari del gruppo Signa dell’investitore immobiliare austriaco René Benko, che controlla circa la metà delle azioni del gruppo che riunisce le attività, oltre del KaDeWe, anche di altri grandi magazzini del lusso come l’Alsterhaus di Amburgo e l’Oberpollinger di Monaco. E dai problemi tra Benko e il gruppo tailandese Central Group che dal 2015 detiene il 50,1% delle azioni.
Berlino intanto osserva interessata quanto sta accadendo con un misto di rammarico e Schadenfreude, ossia il “piacere provocato dalla sfortuna (altrui)”.
Perché per Berlino il KaDeWe non è solo un grande magazzino, è soprattutto il grande magazzino, e il KaDeWe porta con sé un immaginario potente, in quanto per oltre un secolo è diventato più volte simbolo di cambiamenti epocali.
Era, almeno inizialmente, l’epifania di un mondo che stava cambiando e che si stava adeguando all’andazzo delle grandi capitali europee e, subito dopo, era diventato l’esemplificazione della grandeur berlinese e di una città che nei primi anni Dieci si stava trasformando da periferia del mondo occidentale a città di interesse europeo, capace di attrarre genti da ogni dove, e con loro artisti e grandi architetti. Nel primo dopoguerra, il ritorno in auge del KaDeWe fu salutato come evidenza della ripresa economica della Germania e la sua ricostruzione – un aereo da guerra americano precipitò sul grande magazzino e l’incendio che seguì lo distrusse quasi completamente – e riapertura dopo la Seconda guerra mondiale fu vista come l’inizio della fine dell’incubo del Nazismo. Fuori dal KaDeWe c’era lo smistamento dei beni alimentari da parte dei britannici (era nel quadrante di occupazione inglese), attività che poi venne spostata all’interno una volta terminata la ricostruzione. Alla riapertura diventò un grande mercato dove si vendeva di tutto, animato in buona parte da persone che risiedevano nella DDR, che lì iniziarono a scoprire quante tipologie di Würstel e quante birre esistevano nella Germania capitalista. Gente che con la costruzione del muro si trovò senza lavoro.
Fu proprio la costruzione del muro a riportare il KaDeWe alla sua funzione originale, quella di grande magazzino per la buona borghesia, e poi, col tempo, a renderlo l’emblema della vita dell’Ovest, dell’opulenza e del benessere di chi non viveva sotto il giogo comunista.
Fu davanti al KaDeWe che Günther Spalda, il cantante di una delle più importanti band punk della DDR, si fermò nei primi giorni dopo l’abbattimento del muro. Per lui quello che aveva davanti agli occhi era il simbolo più spregevole del consumismo e del capitalismo occidentale, tutto ciò contro cui si era battuto a parole e musica, e che da sempre aveva considerato dannoso tanto quanto il regime comunista nella Germani dell’Est. “Mi ritrovai lì davanti e rimasi immobile. Quando entrai con l’idea di spaccare tutto, mi accorsi che in fondo mi ero sempre solo battuto contro un’idea che non avevo mai visto. Un’idea che però era molto più calda e morbida di quello che pensavo e che in fondo non era poi così spregevole”.
Chissà se Günther Spalda quel giorno salì al terzo piano del KaDeWe. Certamente, anche se fosse salito al terzo piano, non avrebbe potuto vedere quel tavolo e quella sedia davanti a una delle finestre che davano sulla Ansbacher Straße, lì dove c’erano e ci sono i giardinetti. A quel tavolo e a quella sedia, un po’ in disparte rispetto tutti gli altri, tra il 1927 e il 1932 poteva sedersi soltanto una persona: Vladimir Nabokov.
Fu un mattino del febbraio del 1927 che lo scrittore russo, dopo la sua solita passeggiata allo zoo di Berlino, che lui chiamava “il giardino dell’Eden della città”, si imbatté tornando a casa, abitava nella zona sud di Charlottenburg, in Georg Tietz. Georg Tietz era figlio di Hermann Tietz, il commerciante ebreo che creò un impero finanziario sul finire dell’Ottocento in Prussia. Era soprattutto il proprietario del KaDeWe e un gran appassionato di letteratura. Aveva particolarmente apprezzato il primo lavoro di Nabokov, Maria – uscito l’anno prima –, e invitò lo scrittore a prendere un tè. Dopo qualche ora di chiacchiere invitò l’autore a venire lì ogni volta volesse perché il tavolo nel quale erano seduti sarebbe diventato suo sino a quando l’avrebbe voluto.
Nabokov a quel tavolo scrisse “Korol Dama Valet” (Re, donna, fante), che richiamò in un sapiente gioco di parole il KaDeWe, e poi i successivi romanzi.
Soprattutto, assieme a Martin Tietz, fratello di Georg, si intrattenne in infinite partite a scacchi. Raccontò: “Fu dopo una lunghissima sfida con Georg che mi decisi a studiare e approfondire il gioco degli scacchi. E proprio al tavolo che usavo come ufficio al KaDeWe composi il primo problema scacchistico”.
Nel 1933 i fratelli Tietz dovettero cedere il centro commerciale allo stato nazista e il KaDeWe fu affidato a una cooperativa di commercianti ariani. Non c’era posto per gli ebrei in Germania.
C’è più niente al KaDeWe di Nabokov e niente più di quel mondo lì, e fortunatamente. E c’è nemmeno più niente di ciò che vedeva lo scultore e pittore Wolf Vostell che nel 1992 rifiutò di vendere al centro commerciale una sua opera in quanto “simbolo di un capitalismo vorace che annichilirà l’uomo e i lavoratori”. Ora che l’istanza di fallimento è stata inoltrata sarà il capitalismo vorace che si prenderà cura del KaDeWe, perché se c’è qualcosa di certo in tutta questa storia è che il KaDeWe non chiuderà definitivamente. Verrà rilevato, sistemato e rimesso in sesto. Certo qualcuno perderà il posto di lavoro, altri verranno creati con il tempo. Il curatore fallimentare è diventato una sorta di rianimatore: rimette al mondo chi si pensa morto. Nemmeno il capitalismo è più quello di una volta.