Loro lo chiamano Medz Yeghern, il Grande Male, e il loro giorno del ricordo è il 24 aprile: lo stesso simbolicamente scelto dal presidente americano Joe Biden per riconoscere per la prima volta ufficialmente, da parte degli Stati Uniti, il “genocidio armeno”. Rianimando contrastanti reazioni geopolitiche e forse, più che altro, suscitando un moto di stupore nelle moltissime persone, la maggioranza anche in occidente si può indovinare, che del genocidio armeno poco o nulla sanno. Di certo meno di quanto sappiano della Shoah, pur così minacciata dall’affievolirsi della memoria e dal negazionismo. Lo stesso giorno della storica decisione di Biden, in Italia l’attore Paolo Kessisoglu e l’ex ambasciatore armeno in Italia, Sargis Ghazarian, hanno presentato un “corto” da loro promosso che si intitola Io sono armeno e che raccoglie le voci e i volti di quaranta armeni d’Italia. Perché di questo piccolo popolo mite, di antichissima tradizione cristiana e che vive per la maggior parte nella diaspora (nella repubblica di Armenia abitano circa tre milioni degli undici milioni di armeni sparsi per il mondo) poco si conosce. E quasi nulla si sa della loro tragica storia, se non si è appassionati di tragedie del Novecento o non si viene direttamente a contatto con gli esponenti di una comunità vivace e che ha riscoperto, soprattutto da dopo la fine dell’Unione sovietica, un proprio profilo identitario. Tutt’al più, periodicamente l’interesse è rianimato dalle notizie, attutite dalla lontananza, sugli scontri militari tra l’Armenia e lo stato musulmano dell’Azerbaijan, come avvenuto alcuni mesi fa.
La relativa esiguità di un piccolo popolo, il ruolo marginale a livello politico internazionale ed economico, le infinite complicazioni storiche, etniche e religiose che circondano la terra degli armeni – ancora oggi schiacciata tra due colossi rivali come la Turchia e l’ex impero russo – sono probabilmente le cause autosufficienti per cui degli armeni e del loro Grande Male si parli e si sappia poco. Unite ovviamente alle difficoltà di pronunciare la “G-word” in un contesto geopolitico e diplomatico spigoloso. E’ per questo che la decisione di Joe Biden di adottarla per la storia degli armeni (l’Unione europea ha riconosciuto il genocidio “ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” nel 1987, anche se sono solo 22 i paesi che lo riconoscono ufficialmente) è apparsa a molti una mossa puramente politica o addirittura tattica. Un po’ come quella, molto criticata in sede internazionale, poiché appare a molti non giustificata dai fatti, di attribuire la specifica di “genocidio” alla persecuzione etnica condotta dalla Cina contro gli uiguri nello Xinjiang.
Cosicché si fa forse prima a mettere in fila un po’ dei motivi che rendono poco conosciuto, e compreso, il genocidio degli armeni che nemmeno a ricapitolarne l’intera storia. Che ha però una sua data di inizio simbolica: il 24 aprile 1915. Quel giorno, mentre in Italia si preparavano le Gloriose giornate di maggio, la Grande guerra era già una realtà per il periclitante Impero ottomano, alleato della Germania, e anche lo sterminio programmatico della minoranza etnica e religiosa armena era già iniziato. Ma quel 24 aprile a Costantinopoli furono arrestati centinaia di esponenti di primo piano della comunità, molti dei quali perfettamente integrati nel nuovo quadro politico laico determinato dai Giovani turchi, che poi vennero uccisi. Il primo motivo che ha reso per decenni poco noti i fatti del Grande Male, oltre alla sistematica distruzione delle prove da parte turca, sta nella sua atipicità organizzativa: estirpare una comunità “estranea” al grande corpo islamico dell’impero, e tuttavia radicata da secoli di complicata ma effettiva convivenza, fu un’operazione per così dire “sperimentale”.
Inizialmente, e per molto tempo, anche in sede storiografica, “l’epurazione etnica” degli armeni fu spacciata, o interpretata, come una reazione al presunto schierarsi degli armeni della Turchia con le truppe russe (cristiane ortodosse). E’ la famosa questione del “tradimento armeno”, che avrebbe scatenato una logica repressione. Famoso è l’episodio della “insurrezione di Van”, ai primi di aprile del 1915. Ma di essa l’ambasciatore americano in Turchia, Henry Morgentahu, uno dei primi a denunciare i fatti all’opinione pubblica mondiale, scriverà: “Fu l’inizio del tentativo di cancellazione di un’intera nazione… Questi fatti sono stati portati in seguito dalle autorità turche a giustificazione dei loro futuri crimini”. L’operazione su larga scala era in realtà già organizzata, anche con la costituzione di reparti speciali di milizie. Il 30 maggio 1915 il governo varò una “Legge temporanea di deportazione” che dava il via all’operazione. Dalle loro terre, dai loro villaggi, gli armeni furono deportati in lunghe carovane composte di vecchi, donne, bambini: gli uomini venivano infatti nella maggior parte giustiziati sul posto. Destinazione? Nessuna. O meglio, ufficialmente Aleppo e altri luoghi sulla costa della Siria. Fu in quelle marce forzate, tra violenze di ogni tipo, che morirono un numero imprecisato di armeni: senza dubbio superiore al milione.
La difficoltà di monitorare e ricostruire i fatti ha avuto un suo ruolo. Ma il grande tema – il vero grande male che ancora oggi impedisce alla Turchia prima laica e kemalista e ora guidata da Erdogan di riconoscere la storia – è la responsabilità ideologica e organizzativa nel genocidio dei Giovani Turchi, il partito che dopo la caduta dell’impero prenderà ufficialmente il potere nella nuova Turchia. Ma già egli anni precedenti alla guerra il potere turco era nelle mani del triunvirato detto popolarmente dei “tre pascià”. Il ministro dell’Interni era Mehmed Talat Pasha, di fatto l’organizzatore in chief dello sterminio assieme al ministro della Guerra, Ismail Enver. E un ruolo ebbe anche Ahmed Cemal, responsabile della Marina. Le ricostruzioni storiche più attendibili concordano nel ritenere la strage degli armeni un progetto pianificato, e lo stesso ambasciatore Morgenthau ricorda che Enver Pasha gli aveva parlato della necessità di eliminare gli armeni. La pulizia etnica era un effetto collaterale della modernizzazione dell’impero, ritengono molti storici non soldi parte armena, ad esempio come il grande storico britannico Arnold J. Toynbee. Un vulnus, una macchia indelebile proprio all’origine della storia laica e democratica dell’ex impero ottomano. Questa lettura è stata ovviamente molto dibattuta e lo è ancora. Dall’altra parte, ci sono storici che pur non negando lo sterminio preferiscono collocarlo all’interno di un’operazione di guerra e sicurezza da parte del triumvirato turco, insomma una conseguenza del reale pericolo di una rivolta degli armeni. Anche se qualche anno fa uno storico turco e oppositore del regime di Erdogan, Taner Akçam, ha pubblicato documenti (in Italia il volume Killing Orders edito da Guerini & Associati) che dimostrano l’esistenza di ordini specifici, e di telegrammi, di Talat che disponevano la completa cancellazione degli armeni. La questione del “genocidio” è dunque oggi storiograficamente chiarita.
Attorno ci sono però altre nuvole che il Secolo breve ha lasciato. Una, non banale, nemmeno dal punto di vista filosofico, è la questione della unicità della Shoah sostenuta da molti storici, intellettuali e teologi ebrei (lo stato di Israele non riconosce a quello armeno lo status di “genocidio”). Poi c’è anche una evidente debolezza della memoria. Prima che Antonia Arslan scrivesse La masseria delle allodole, potato poi sullo schermo da Paolo e Vittorio Taviani, in Italia, pur terra di primissimo approdo per gli armeni in fuga dal Grande Male, non era molta la letteratura a riguardo. Ci si ricorda, sostanzialmente per il titolo, del grande romanzo storico I quaranta giorni del Mussa Dagh – documentatissimo e acuto nella ricostruzione – di Franz Werfel, grande scrittore austriaco di origini ebraiche. Ma è significativo che fino a qualche anno fa il libro fosse disponibile in italiano solo attraverso la ristampa di una traduzione del 1935, ampiamente illeggibile, da cui Mondadori ha recentemente tratto una revisione, ma non una traduzione nuova (magari con un poco di editing) come il libro meriterebbe. Significativo anche che un altro importante, tragico, violento romanzo sullo sterminio degli armeni sia opera ancora di uno scrittore ebreo tedesco, sopravvissuto alla Shoah, Edgar Hilsenrath: La fiaba dell’ultimo pensiero, pubblicato nel 1989 e tradotto in italiano quindici anni fa da Marcos y Marcos. Diceva Hilsenrath, morto nel 2018, che anche quello armeno era stato un genocidio, “per quanto non il mio”. Eppure nel suo romanzo ci si rispecchia, affrontando tutti itemi del male: a partire dalla sindrome del complotto che pervade tanto l’ideologia decadente della vecchia amministrazione ottomana, quanto la smania rivoluzionaria dei Giovani turchi. La creazione del nemico interno, la necessità di estirparlo, sono i tratti della tragica “modernità” dello Medz Yeghern degli armeni.
Le motivazioni che hanno spinto ora il presidente degli Stati Uniti al riconoscimento ufficiale del genocidio sono evidentemente da ricercare più negli attuali rapporti di forza e geostrategici tra Turchia, Russia, Stati Uniti e anche l’Unione europea (uno dei motivi simbolici su cui si bloccò, oltre dieci anni fa, la trattativa per l’ingresso di Ankara nell’Unione fu proprio l’indisponibilità turca a riconoscere il tragico passato). Sapere inquadrare nella sua cornice quello che soltanto nel 1973 la Commissione dell’Onu per i diritti umani lo riconobbe come il primo genocidio del XX secolo, può aiutare a capire.