di Walter Veltroni
sabato 10 settembre 2016 09:21
ROMA – Gigi Di Biagio è romano. Ha giocato nella Lazio, nella Roma. Ora allena la nazionale under 21. Nelle sue mani è la formazione di molti dei nostri talenti migliori. E’ a un passo dalla qualificazione agli europei di categoria. La sua nazionale sforna costantemente talenti e mostra bellezze come il gol di tacco di Di Francesco contro Andorra. Chi ama davvero il calcio segue i tornei giovanili, cerca i talenti, immagina o si illude di aver scoperto nuovi fenomeni. Di Biagio si trova nella fortunata condizione di farlo per lavoro. E’ come vedere grandi artisti crescere, talenti in nuce prima che tutti li riconoscano. Di Biagio fece vibrare nello stesso istante, un giorno di luglio del 1998, una traversa della porta difesa da Barthez e il cuore di milioni di italiani. Che certo ricordano con dolore, ma hanno compreso, hanno perdonato e ora tifano per questo romano tosto e determinato che deve far crescere nella sua serra i fiori migliori del nostro calcio. «Ho iniziato anche io a giocare in un oratorio. Un oratorio romano, quello di Testaccio. Ci stavo dalla mattina alla sera, fin da quando avevo cinque anni. Giocavo a qualsiasi cosa, compreso a basket. Al calcio mi mettevano davanti perché avevo un bel tiro, una bella “pigna “, come si dice, chissà perché, a Roma. A dieci anni ho iniziato con la scuola calcio della Lazio, la squadra per cui tifavo. Mi piaceva Lothar Matthäus e anche Ruben Sosa, al quale cercavo di assomigliare. Poi ho avuto la fortuna di allenarmi con lui che mi prese in simpatia e mi aiutò a crescere. Ma io allora vivevo, come ho sempre cercato di fare, il calcio in modo spensierato. Mio padre, che faceva il metalmeccanico a Pomezia, mi ha sempre insegnato che nella vita sono importanti due cose: il lavoro e il divertimento. Questo mi ha aiutato a vivere il football, da subito, come una pura passione. Vivevo il sogno del calcio, non la smania del calcio. Ai miei ragazzi, ai giovani che alleno, dico sempre che quando si sta sul palcoscenico, in piena luce, bisogna sempre ricordarsi da dove si viene, bisogna sapersi divertire per poter poi firmare autografi a bambini simili a come eravamo noi».
Lei esordì con la Lazio in A quando aveva solo diciotto anni.
«Sì, fu nel giugno del 1989, contro la Juventus. Me lo ricordo come fosse adesso. Materazzi, che era il nostro allenatore, mi disse di scaldarmi. Perdevamo quattro a due, mancavano sette minuti alla fine. Io ero teso, ovviamente. Il mister mi guardò e disse, semplicemente, la parola che per me è la chiave per interpretare bene il calcio. Mi disse “divertiti”. E basta. E così tutto cominciò».
Poi fu venduto al Monza, ancora ragazzo…
«Sì e devo dirle che un po’ mi dispiacque, mi sembrò che la Lazio mi trattasse male. Per otto anni ero stato tra i migliori delle squadre giovanili biancazzurre. Fui ceduto così, senza che si preoccupassero di seguire il percorso di un talento che avevano allevato in casa. Lo dico senza rancore. Visto come è andata penso sia stato un danno, per loro. Mi acquistarono Marotta e Carnevali, quello del Sassuolo, che mi presero prima in prestito e poi a titolo definitivo. Realizzarono una bellissima plusvalenza, quando poi mi cedettero al Foggia. A Monza fu un’esperienza importante, era una società seria, imparai molto. Ebbi anche degli allenatori tanto bravi quanto magari ingiustamente dimenticati: Frosio, Varrella, Trainini…».
Quali sono stati i tecnici più importanti nella sua carriera da calciatore?
«Allestirei un podio e ci metterei Zeman, Mazzone, Lippi».
Partiamo da Zeman…
«Premetto, i tre nomi che ho citato corrispondono a tre modi diversi di pensare il calcio. Forse proprio per questo sono stati così importanti nella mia formazione. Zeman mi ha fatto capire la cultura del football. Il valore di un gioco offensivo, coraggioso, non micragnosamente speculativo. Si dice che non abbia, pur avendo allenato grandi squadre, vinto molto. E’ vero, anche se vale quello che ha detto Ventura in questi giorni: ci sono allenatori che vincono scudetti e altri che fanno crescere il valore dei giocatori che scoprono e formano e così contribuiscono alla solidità delle società. Ma, lo dissi a lui, se un difetto Zeman aveva era quello di faticare a gestire le squadre quando c’erano, nell’organico, grandi campioni. Non è il suo caso ma io ho sempre diffidato dei tecnici che cominciano il proprio rapporto con una squadra dicendo “Per me siete tutti eguali”. Non è così, in una squadra di calcio non si è tutti uguali, ci sono i campioni e di loro bisogna tenere speciale conto. Detto questo, lui è stato un innovatore strepitoso. Zeman insegnava, trent’anni fa, il calcio che si pratica ora».