• 25 Novembre 2024 14:54

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Il complicato equilibrio delle necessarie politiche per la biodiversità

Mag 25, 2023

Recentemente su queste pagine abbiamo introdotto la definizione moderna del concetto di biodiversità, mostrando come sia connesso ad una complessità su più livelli distinti, e abbiamo riportato alcuni dati che, nel loro insieme, indicano come l’incremento di biodiversità, in più condizioni differenti, arrechi dimostratamente diversi benefici. Tuttavia, abbiamo lasciato in sospeso due aspetti importanti, che servono a definire meglio i confini delle politiche volte a produrre incrementi di biodiversità il cui valore non sia discutibile: il come e il dove tali politiche si possano esplicare. Implicitamente, nel riportare il valore dell’incremento di biodiversità abbiamo fatto riferimento alla variazione di alcuni specifici parametri, come la diversità di specie di piante, in specifici contesti, come un prato, e per specifici fini, come l’entità della immobilizzazione di anidride carbonica.

 

Questo implica innanzitutto che l’incremento di biodiversità, a livelli diversi e in contesti diversi, produce effetti diversi, non sempre auspicabili: è evidente che, per esempio, l’aumento di biodiversità nelle nostre case potrebbe essere un vantaggio generale dal punto di vista della vita sulla Terra, ma non per noi stessi, comportando la condivisione dei nostri spazi e delle nostre risorse con numerose altre specie delle quali facciamo solitamente volentieri a meno – dai commensali, quali ad esempio i ratti e varie specie di insetti, ai parassiti, quali altri artropodi e diversi microorganismi, fino a piante in grado di degradare le nostre suppellettili e le stesse mura delle nostre case, continuando per tutta una serie di organismi che abbiamo letteralmente messo alla porta, sin da quando abbiamo deciso di costruire una casa invece di utilizzare un giaciglio casuale per il nostro ricovero. Non solo: molte delle nostre produzioni alimentari sarebbero messe a rischio da un eccessivo e incontrollato aumento di biodiversità, che comporterebbe per esempio nei campi una estrema difficoltà nella raccolta su scala sufficiente a sfamare le nostre comunità e anche una notevole diminuzione delle rese, a causa della competizione e a vantaggio di specie diverse da quelle da cui dipende la nostra alimentazione, perché un ecosistema non si espande con uno spontaneo riguardo per la nostra specie, ma si adatta a sfruttar meglio, anche sottraendole a noi, tutte le risorse a disposizione.

 

Queste considerazioni, insieme ad altre simili che si potrebbero fare, ci portano ad una prima conclusione: il valore dell’accrescimento di biodiversità, non appena tale valore debba essere promosso senza essere di contrasto alla nostra stessa specie, va modulato per evitare evidenti effetti negativi. Non solo: estendendo il ragionamento, è possibile individuare un notevole numero di esempi in cui vi è contrasto fra una vita umana il più agiata possibile e l’incremento di biodiversità, per la semplice ragione che la prima richiede l’appropriazione di un numero di risorse limitato solo dalla nostra capacità di consumarle, mentre la seconda richiede una limitazione di tale consumo almeno sufficiente ad accresce il consumo di altri organismi, rispetto ad altri organismi. Questa è la traduzione elementare del contrasto fra la crescita senza limiti della nostra popolazione e quella delle altre, e in un ragionamento di pura convenienza non trova conciliazione almeno fin tanto che le risorse non comincino a scarseggiare e il danno all’ecosistema non sia tale, da sconsigliare l’ulteriore crescita scriteriata e porre un limite intrinseco. Dunque, cosa viene prima, il nostro agio o la biodiversità e i suoi vantaggi? A cosa dare priorità?

 

Il punto è che la conciliazione forzosa cui si accennava poco innanzi, causata dall’eccessivo sfruttamento e dalla conclusione che sia bene fermarsi per evitare un danno proprio alla nostra specie, è già, da tempo, necessaria, perché le conseguenze della crescita incontrollata della nostra specie nel suo complesso, e particolarmente delle popolazioni a standard di vita più elevato e maggiori consumi, sono già arrivate a procurare danni climatici, ad esaurire molti ambienti e a provocare disastri di vario genere, pur se scala finora limitata a quello che succederà in futuro se faremo finta di nulla o se non riusciremo a far altro che parlare. A questo punto, politiche ambientali razionali e basate sulla conoscenza scientifica, e non su superstizioni pseudoscientifiche di facile presa come purtroppo spesso si tende a formulare, sono assolutamente indispensabili, e tra queste, appunto, quelle volte a promuovere l’aumento di biodiversità nei modi e nei luoghi che sono più indicati. Come?

 

L’abbandono di ampie porzioni di territorio alla vita selvatica potrebbe sembrare una buona idea. A Chernobyl, per esempio, è tornato persino il bisonte europeo, e fra i palazzi in rovina circolano animali selvatici di ogni specie: la foresta, protetta dal pericolo radioattivo, e l’intero ecosistema sono tornati ad uno stadio complessivamente più biodiverso di prima dell’esplosione, con un’ampia rete ecologica ben differenziata di produttori e consumatori che, nel suo complesso, è più efficiente nel fornire quei servizi ecologici utili alla vita sul pianeta (inclusa la nostra). Eppure, proprio l’abbandono del territorio può causare anche perdita di biodiversità: è noto, ad esempio, che il pascolo millenario di ambienti alpini ha prodotto un ecosistema con piante adattate e che richiedono l’azione degli erbivori per fare luce ed evitare la crescita di foreste, fra cui orchidee spontanee e altre erbacee alpine particolari, insieme a farfalle e ad un’intera catena di consumatori specializzati che di quelle si nutrono. L’abbandono dei pascoli in quota, dovuto a ragioni economiche, produce una rapida riforestazione che, specie laddove subentra l’abetaia, implica una perdita di biodiversità, non un suo aumento.

 

Non solo, quindi, come dicevamo all’inizio, non è possibile promuovere la biodiversità ovunque ed in modo casuale, ma anche, controintuitivamente, certi ambienti ove l’azione antropica è forte e millenaria possono rivelarsi più diversi ecologicamente di quanto non siano gli ambienti cui si tenderebbe in assenza dell’uomo. Per questo motivo, le politiche volte all’incremento di biodiversità debbono tener conto di due aspetti di pari importanza: gli effetti sulla popolazione umana, che possono essere controproducenti anche in termini ecologici (per esempio, portando ad un maggior consumo di terra se si diminuisce la resa dei raccolti), ma anche e soprattutto la diversità di impatto delle diverse azioni individuate, a seconda del tipo di ambiente su cui si intende intervenire. In ecologia, non esiste la semplicità, né le soluzioni tagliate con l’accetta possono funzionare: ciò che funziona in un luogo e in certe condizioni di antropizzazioni, può essere controproducente altrove. Ed ecco perché, oltre gli slogan, è necessario rivolgersi agli scienziati di molte discipline diverse, non agli ideologi o agli ingenui propugnatori di soluzioni semplici, se davvero si vuole invertire la tendenza al degrado che metterà sempre più in pericolo la nostra sussistenza.

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