C’eravamo abituati a quel sorriso da instancabile piazzista, da imbonitore impermeabile dubbio, da cabarettista strafelice di sé e alla conquista degli altri. Eppure all’inizio chi lo prendeva sul serio Berlusconi? Quando comparve nelle case degli italiani con una calza sopra la telecamera, e le foto dei figli e della moglie Veronica Lario dietro la scrivania per annunciarci di amare l’Italia e di voler scendere in campo per tentare la conquista di Palazzo Chigi. Era il 1993. Nessuno, davvero nessuno, lo prendeva sul serio, al di là della ristretta schiera di seguaci e sostenitori della prima ora. Il birignao di tutti quelli che piacevano alla gente che piace toccava all’epoca la sua espressione massima. Achille Occhetto, l’ex comunista che aveva guidato con disinvoltura la svolta della Bolognina dopo la caduta del Muro, era convinto di ritrovarsi al comando di una gioiosa macchina di guerra che avrebbe vinto le elezioni. E invece, la scure che cadde sull’elettorato italiano quel 27 marzo 1993, lasciò tutti di sorpresa. A vincere fu la falange del partito di plastico, coi candidati reclutati come un cast per la forza vendita, il kit con le mentine per il sorriso sicuro, i colli di camicia inamidati e il nodo della cravatta largo, larghissimo, ma non sbracato. Una nuova estetica si impose alla ribalta della politica italiana e una nuova etica finì di conseguenza per affermarsi. Erano gli anni del crollo dei partiti, gli anni di Tangentopoli, delle inchieste assassine, della guerra alla corruzione, dell’urlo di rivolta degli onesti. Berlusconi meglio di chiunque altra incarnava la fine delle grandi ideologie che avevano minato il Novecento, il tramonto delle figure sacerdotali dei vecchi ministri democristiani, e dei politici comunisti. Era l’epitome libertaria e avanguardista del ribellismo socialista alla Bettino Craxi, lottatore libero contro i conglomerati di massa, difensore estremo dell’Europa del dissenso perseguita dall’Urss, con l’acquiescenza di non pochi comunisti nostrani, eppure fermo al palo dell’11 per cento, sempre a corto di consensi popolari e sempre a caccia di soldi, et pour cause. Fu Berlusconi, che di Craxi era stato l’amico, il dignitario, l’impresario e gli aveva persino dato il ruolo di testimone delle seconde nozze con la bellissima Lario, a realizzare quella che era stata un’intuizione folgorante del segretario del Psi, aprendo al Movimento Sociale di Giorgio Almirante le porte che per cinquant’anni e passa gli erano state sbarrate dall’arco costituzionale. Fu quella la principale rivoluzione nella vita politica italiana e stupisce che a trent’anni di distanza nessuno voglia cogliere in quell’alleanza nuova, spregiudicata e vitalissima, il nucleo fondatore che permise di assicurare all’elettorato italiano l’assoluta novità dell’alternanza. Berlusconi vinse le elezione nel 1994, ma le perse nel 1996, le rivinse nel 2001, ma le perse nel 2006 per poi rivincerle nel 2008. Gli italiani che per cinquant’anni avevano vissuto l’asfissia del consociativismo, costretti alla corruzione endemica legata alla mancanza di alternative di governo, vincolati al fattore K, il più grande partito comunista d’Occidente, escluso dal governo ma ammesso nei gangli di potere della società civile, scoprirono così, grazie al sorriso smodato di quell’imprenditore brianzolo, il principio del governo libero e la virtù della democrazia rappresentativa. Il che non è poco per dargli il posto che merita nella storia d’Italia.