Domenica Francesco “Pecco” Bagnaia si è preso un bel rischio per riuscire a portare la sua Ducati sul podio del MotoGp del Qatar, proprio all’ultimo respiro: “Ho dovuto spingere veramente tanto faticando molto. La gomma dietro non c’era praticamente più”. In effetti, correre a trecento e passa con una ruota che può scoppiare è un bel rischio. Solo qualche giorno prima l’azienda che costruisce il suo bolide aveva annunciato un grande balzo in avanti in Asia, dove persino nel 2020 il suo mercato è cresciuto di oltre il 20 per cento, perché in Cina le rosse di Borgo Panigale piacciono da matti. Subito dopo anche Ducati è finita nel grande ingorgo di Suez, che ha bloccato un carico delle sue moto.
Ora la Ever Given l’hanno raddrizzata, però anche Ducati qualche soldino ce lo ha perso: il fattore rischio dell’economia globale. Due rischi diversi, personale di quello di Bagnaia, di investimento quello dell’azienda di cui veste i colori sportivi. E tra i due, se il primo è più spettacolare, è il secondo quello che ha più attirato l’attenzione di milioni di persone. Se non altro perché ci ha fatto scoprire un aspetto di solito oscuro: che cosa ne sappiamo, e perché poi dovremmo, di tutti i fattori di rischio su cui galleggiano le nostre vite? Le moto Ducati sono una nicchia per appassionati. Ma immaginiamo, per ipotesi, se su uno di quei cargo bloccati nel Mar Rosso ci fosse stato un carico di vaccini AstraZeneca prodotti in India e diretti in Europa: la nostra suscettibilità ai fattori di rischio impliciti nella società globale sarebbe stata molto più acuta. Ma il rischio non è sempre un male.
Senza non ci sarebbe creazione né miglioramento in nessun settore delle nostre vite. E non si vincerebbero le gare in moto. E’ sempre stato così, ma un tempo i rischi erano più personali, o circoscritti. Isabella di Castiglia, al massimo, ci avrebbe rimesso tre caravelle. Oggi la capacità e necessità di rischiare sono una delle caratteristiche della civiltà contemporanea. Senza, non esisterebbe impresa né sviluppo economico. Non avremmo neppure i vaccini. Quando fu imposto lo stop ad AstraZeneca, criticammo con buone ragioni i paradossi del principio di precauzione. Prendendosi qualche rischio in più, Londra ha festeggiato ieri il suo Happy Monday quasi Covid-free. Alla Società del rischio il sociologo tedesco Ulrich Beck dedicò un libro che ha avuto moltissima influenza e suscitato molta discussione. Spiegava i problemi crescenti della società globalizzata costruita sul binomio rischio-guadagno, in anticipo di 35 anni sugli sviluppi pandemici recenti, di cui il pangolino malefico che ci ha trasmesso il virus è solo l’ultimo caso. Nella società globale ogni aspetto delle nostre vite è sottoposto a molteplici fattori e ogni singolo avvenimento “non previsto” diventa decisivo. Per questo motivo scienza, economia, medicina, politica hanno il compito (spesso il merito) di calcolare nel modo migliore i rischi, e di renderli meno “costosi”. Ma il rischio si porta dietro alcune conseguenze, diceva Beck. La prima è che i moltiplicatori diventano sempre più grandi: nei meccanismi complessi il fattore imponderabile è sempre presente, ma le conseguenze sono su scala mondiale. L’altro aspetto è che il rischio genera paure. Paura del terrorismo, paura del contagio. Vogliamo garanzie e assicurazioni. Vogliamo che Astrazeneca se lo facciano prima gli altri. Siamo più liberi, ma questo produce un incremento di incertezza che ci costringe ad alzare la nostra personale polizza. (Beck, quattro decenni fa, poneva anche il tema di avere dei figli come uno dei fattori di rischio che preferiamo evitare). E quando scopriamo che il rischio non è mai zero, spalanchiamo la bocca, come davanti alle foto di Suez.