• 25 Novembre 2024 0:15

Corriere NET

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Il basket apre le carceri italiane. Nasce il progetto The Cagers  

Ott 21, 2023

AGI – Una squadra di detenuti si allenerà per un anno a Trieste, agli ordini di quattro campioni, per essere poi pronta a scendere sul parquet

In principio erano i “cagers”. James Naismith aveva pensato un nuovo gioco con due canestri, una palla, cinque giocatori in campo per parte. E fu basketball. I giornalisti dell’epoca, per facilità, chiamarono gli atleti cagers. Il motivo? Le sfide erano disputate in una gabbia, in inglese cage.

Il motivo era chiaro. Il professore canadese di educazione fisica, che insegnava alla YMCA international Training School di Springfield, nel Massachussets, aveva immaginato qualcosa di diverso dal football, a cui tutti potessero partecipare non in base alla forza o alla stazza ma grazie all’abilità di infilare una palla in un cesto a 10 piedi del pavimento. Con l’andare del tempo però il gioco divenne molto duro, tanto che i giocatori indossavano protezioni per difendersi dai colpi.

La pallacanestro venne così chiamata, in maniera gergale, the Cage Game ovvero il Gioco della Gabbia. Il motivo è semplice: le partite si disputavano all’interno di alte recinzioni. Lo scopo era quello di proteggere gli sportivi dal lancio di oggetti da parte del pubblico, molto più vicino al campo rispetto ad altri sport: volavano bottiglie, monete, sedie, di tutto insomma. Ma si voleva anche difendere il pubblico dai giocatori, che erano già molto più grandi e grossi rispetto alla media. E non avevano alcuna remora ad abbandonare la prestazione sportiva per rispondere alle provocazioni della gente.

Di tempo da allora ne è passato e, nella vita di tutti i giorni, le gabbie esistono ancora. Possono avere, tra tante, le sembianze di un carcere. Dove dentro le mura si sconta il debito verso la società.  E proprio all’interno di quelle mura, con il sostegno del Ministero della Giustizia e del Ministero per lo Sport e i Giovani che ne hanno apprezzato la grande valenza sociale, è entrata la pallacanestro con il progetto.

The Cagers

È stato formato uno staff tecnico di altissima qualità, composto da campioni con un passato eccellente come Federica Zudetich, Stefano Attruia e Donato Avenia, i tre tecnici chiamati a visionare e selezionare i futuri Cagers, con Francesca Zara che si occuperà della preparazione atletica

Hanno iniziato a girare le carceri italiane alla ricerca di detenuti/giocatori in grado di fare la squadra, come si dice in gergo, con delle selezioni che hanno proposto loro tante storie diverse. Tutti gli istituti di pena hanno ricevuto una comunicazione per aprire le porte a questo nuovo progetto inclusivo, di alto spessore sociale che sta coprendo l’Italia, da Nord a Sud, passando per le isole. I primi allenamenti si sono svolti nelle carceri di Piazza Armerina, Caltagirone, Enna, San Cataldo, Vibo Valenzia, Augusta, Catania, Napoli, Volterra, Gorgona, Civitavecchia. E si va avanti con nuove tappe in altri istituti di pena.

Sarà Trieste la sede scelta per questa avventura dei Cagers. Lì ci si allenerà come una squadra professionistica per togliere ruggine dalle articolazioni, dare forza ai muscoli, iniziare a prendere confidenza con la palla ed i fondamentali. Obiettivo: costruire, passo dopo passo, una squadra. Giochi a due, a tre, a quattro, e via fino al cinque contro cinque.

“Nasce proprio a Trieste questa idea di veder rimbalzare una palla da basket dentro alle carceri italiane” racconta Stefano Attruia. “Ero in visita – prosegue l’ex playmaker – per incontrare i detenuti, dentro la casa circondariale della città. Sento una voce che mi chiama: Stefano. Mi giro e incontro un volto inaspettato con gli occhi di sempre, gli occhi di quando eravamo bambini. Ed eccoci qui dentro le mura della Casa Circondariale di Trieste a tuffarci nei ricordi della nostra pallacanestro, le prime partite e i primi ritiri di preparazione in montagna. Il nostro abbraccio muove una sensazione: portare la palla oltre il muro per avvicinare questo contesto alla comunità sociale è una naturale conseguenza. Quello che possiamo fare noi allenatori, dentro e al di là del muro, è metterci al servizio degli altri portando tutto l’amore che abbiamo per questo sport”.

Tante storie si intrecciano in questa squadra che si sta costruendo, tutte diverse. Andranno a mischiarsi ad altre di un gruppo che, tappa dopo tappa, verrà ultimato con altri innesti. È intanto frenetico il ritmo delle selezioni, con lo staff impegnatissimo a vincere scetticismo, timidezze e a cercare un nuovo talento nascosto tra chi l’esistenza oggi la vive dietro alle sbarre.

AGI – Una squadra di detenuti si allenerà per un anno a Trieste, agli ordini di quattro campioni, per essere poi pronta a scendere sul parquet
In principio erano i “cagers”. James Naismith aveva pensato un nuovo gioco con due canestri, una palla, cinque giocatori in campo per parte. E fu basketball. I giornalisti dell’epoca, per facilità, chiamarono gli atleti cagers. Il motivo? Le sfide erano disputate in una gabbia, in inglese cage.
Il motivo era chiaro. Il professore canadese di educazione fisica, che insegnava alla YMCA international Training School di Springfield, nel Massachussets, aveva immaginato qualcosa di diverso dal football, a cui tutti potessero partecipare non in base alla forza o alla stazza ma grazie all’abilità di infilare una palla in un cesto a 10 piedi del pavimento. Con l’andare del tempo però il gioco divenne molto duro, tanto che i giocatori indossavano protezioni per difendersi dai colpi.
La pallacanestro venne così chiamata, in maniera gergale, the Cage Game ovvero il Gioco della Gabbia. Il motivo è semplice: le partite si disputavano all’interno di alte recinzioni. Lo scopo era quello di proteggere gli sportivi dal lancio di oggetti da parte del pubblico, molto più vicino al campo rispetto ad altri sport: volavano bottiglie, monete, sedie, di tutto insomma. Ma si voleva anche difendere il pubblico dai giocatori, che erano già molto più grandi e grossi rispetto alla media. E non avevano alcuna remora ad abbandonare la prestazione sportiva per rispondere alle provocazioni della gente. Di tempo da allora ne è passato e, nella vita di tutti i giorni, le gabbie esistono ancora. Possono avere, tra tante, le sembianze di un carcere. Dove dentro le mura si sconta il debito verso la società.  E proprio all’interno di quelle mura, con il sostegno del Ministero della Giustizia e del Ministero per lo Sport e i Giovani che ne hanno apprezzato la grande valenza sociale, è entrata la pallacanestro con il progetto.

The Cagers
È stato formato uno staff tecnico di altissima qualità, composto da campioni con un passato eccellente come Federica Zudetich, Stefano Attruia e Donato Avenia, i tre tecnici chiamati a visionare e selezionare i futuri Cagers, con Francesca Zara che si occuperà della preparazione atletica Hanno iniziato a girare le carceri italiane alla ricerca di detenuti/giocatori in grado di fare la squadra, come si dice in gergo, con delle selezioni che hanno proposto loro tante storie diverse. Tutti gli istituti di pena hanno ricevuto una comunicazione per aprire le porte a questo nuovo progetto inclusivo, di alto spessore sociale che sta coprendo l’Italia, da Nord a Sud, passando per le isole. I primi allenamenti si sono svolti nelle carceri di Piazza Armerina, Caltagirone, Enna, San Cataldo, Vibo Valenzia, Augusta, Catania, Napoli, Volterra, Gorgona, Civitavecchia. E si va avanti con nuove tappe in altri istituti di pena. Sarà Trieste la sede scelta per questa avventura dei Cagers. Lì ci si allenerà come una squadra professionistica per togliere ruggine dalle articolazioni, dare forza ai muscoli, iniziare a prendere confidenza con la palla ed i fondamentali. Obiettivo: costruire, passo dopo passo, una squadra. Giochi a due, a tre, a quattro, e via fino al cinque contro cinque.
“Nasce proprio a Trieste questa idea di veder rimbalzare una palla da basket dentro alle carceri italiane” racconta Stefano Attruia. “Ero in visita – prosegue l’ex playmaker – per incontrare i detenuti, dentro la casa circondariale della città. Sento una voce che mi chiama: Stefano. Mi giro e incontro un volto inaspettato con gli occhi di sempre, gli occhi di quando eravamo bambini. Ed eccoci qui dentro le mura della Casa Circondariale di Trieste a tuffarci nei ricordi della nostra pallacanestro, le prime partite e i primi ritiri di preparazione in montagna. Il nostro abbraccio muove una sensazione: portare la palla oltre il muro per avvicinare questo contesto alla comunità sociale è una naturale conseguenza. Quello che possiamo fare noi allenatori, dentro e al di là del muro, è metterci al servizio degli altri portando tutto l’amore che abbiamo per questo sport”.
Tante storie si intrecciano in questa squadra che si sta costruendo, tutte diverse. Andranno a mischiarsi ad altre di un gruppo che, tappa dopo tappa, verrà ultimato con altri innesti. È intanto frenetico il ritmo delle selezioni, con lo staff impegnatissimo a vincere scetticismo, timidezze e a cercare un nuovo talento nascosto tra chi l’esistenza oggi la vive dietro alle sbarre.

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