• 27 Novembre 2024 16:46

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I primi 60 anni di Michael Jordan

Feb 17, 2023

AGI – È incredibile ma sono già 60. Per chi ha vissuto l’epopea di Micheal Jordan, dentro e fuori dal campo, è strano pensare che il più forte leader di tutti i tempi, non solo su un parquet di basket, stia già spegnendo tutte quelle candeline. Nella testa le immagini, come diapositive, sono indelebili.

La leggerezza dei suoi movimenti con la maglia di North Carolina, matricola terribile, secco e magro come un grissino. Il suo arrivo in Nba, terza scelta del 1984, dietro Olajuwon e Sam Bowie. Un anno clamoroso, quello, con giocatori del calibro di Barkley e Stockton. Quella maglia dei Bulls, rossa o nera, sudata e consumata da cima a fondo, in ogni partita. La testa pelata, lo sguardo torvo, la lingua fuori.

Il binomio con Pippen, col ‘santone’ delle panchine, Phil Jackson. Gli scambi, tra il faceto e il furioso, con Dennis Rodman, Luc Longley, Horace Grant, Steve Kerr. Essere compagno di Micheal è stato un privilegio ma, per molti, anche una tortura continua. Leadership fa rima con pretesa. Le rivalità con i Pistons, i Knicks, i Celtics, i Lakers e i Jazz. Con Larry Bird, Magic Johnson, Isaiah Thomas e Patrick Ewing.

 

E poi, ancora, tutti quei canestri, a fil di sirena, incredibili. Quel ritiro strano, inaspettato. La morte del papà e la parentesi ‘baseball’, un fiasco clamoroso. Il ritorno, allora, in pompa magna. Le luci dello United Center, tutte per lui. Il marchio sulle scarpe, vestiti, borse. La sua silhouette. Ovunque. Persino Bugs Bunny, Space Jam e tutto il circo di Hollywood fino ad arrivare a The Last Dance, clamoroso successo firmato Netflix in tempo di pandemia. E poi la vecchiaia sportiva. I lampi di genio cestistico, con la palla mano, sempre più rari ma sempre più epici.

L’abbraccio ai Wizards, il ruolo di dirigente, quello da proprietario, a Charlotte, e le scelte, troppo, sbagliate. E allora tutto, nella testa, sembra mescolarsi e confondersi nel frullatore del tempo. E allora stop, rewind. Sessant’anni vanno ricordati, sistemati. Per bene.

Gli inizi

Michael Jeffrey Jordan è nato il 17 febbraio 1963, figlio di James e Deloris Jordan. Dopo una breve parentesi newyorchese la famiglia si sposta a Wilmington, North Carolina. È un luogo di basket, soprattutto universitario. North Carolina University, Duke, Wake Forest, Davidson, tra le tante. La Tobacco Road, percorso di culto, che collega assi, cesti e imprese. Micheal inizia a giocare a basket sulle orme del fratello. Entrambi con la maglia 45. Per questo, a volte, il più piccolo è costretto a sceglierne un altro. Opta per il 23, la metà arrotondata. Quel numero è oggi storia e lo identificherà sempre, per tutta la carriera.

La sua è una gioventù ribelle “raddrizzata” dal padre che lo toglie dalle compagnie pericolose, obbligandolo a dedicarsi, anima e core, allo sport. Dopo l’high school ottiene una borsa di studio alla North Carolina University. È un College rinomato con una delle squadre con più tradizione della Ncaa (il campionato universitario). Essere scelti lì, indossare quei colori, è un privilegio.

Nel 1982 Micheal guida la squadra alla vittoria del titolo nazionale con un canestro, in sospensione, marchio di fabbrica, contro Georgetown. Gli scout Nba hanno già il suo nome nei loro taccuini. Ora lo sottolineano con la matita rossa. “Quella vittoria mi ha dato la sicurezza di cui avevo bisogno per eccellere nel gioco”, ricorderà. Mike, insomma, è diventato Micheal. Il suo legame con quell’Università resterà sempre fortissimo tanto da farlo scendere in campo, in Nba, tenendo sempre sotto quelli dei Bulls anche i calzoncini celesti dei ‘Tar Heels’.

La Nba

L’arrivo in Nba, invece, è altalenante. Jordan sale e scende dalle montagne russe, cade e si rialza, illumina e si chiude in sé. Vince il titolo di matricola dell’anno ma durante il secondo anno si rompe un piede. La riabilitazione è faticosa ma gli permette di acquisire ulteriore forza mentale. Vince titoli personali ma deve aspettare 6 anni per consegnare il primo titolo della storia ai suoi Bulls e alla città di Chicago. Il 28 marzo del 1990, diventa leggenda, segnando 69 punti contro Cleveland. In tutta la sua carriera supererà la soglia dei 60 punti ben 5 volte.

Quell’anno inizia ufficialmente la dinastia di Michael Jordan e dei Bulls. Tre titoli in fila, “il famoso three-peat”. Nessuno ci era riuscito tra i grandi nell’epoca. Non Bird con i Celtics, non Magic Johnson con i Lakers. I suoi grandi rivali. Jordan lo sa e lo ribadisce quando può. In mezzo, inoltre, ci sono le famose Olimpiadi di Barcellona 1992 e il dream team degli Usa. La squadra più forte mai scesa su un parquet. È oro, ovviamente. È il leader, emotivo, tra un canestro e una buca da golf, insieme ai suoi “amici-nemici” di sempre.

Qualcosa si spezza nel 1993. Il 22 agosto il padre, James, venne ucciso mentre fa ritorno dal funerale di un amico. Si ferma, in macchina, per riposare. Due malviventi lo trovano, lo uccidono e gli rubano l’auto. È uno shock. Pochi mesi dopo arriva l’annuncio del ritiro. Il padre voleva vederlo giocare su un diamante e lui prova. adaccontentarlo. Ma la parentesi dura poco. Il livello è troppo alto e Michael decide, il 18 marzo del 1995, di tornare al suo amore, il basket, e a casa sua, Chicago. Lo fa con sole due parole: “Sono tornato”. È un clamoroso ritorno. Altra tripletta in fila, altri record. Altri tre titoli per Chicago e per i Bulls. Il suo nome diventa immortale. Il canestro contro gli Utah Jazz e Byron Russell, di talento e mestiere, è ancora considerato tra i capolavori del gioco. È il 14 giugno del 1998, l’ultimo atto di Jordan con i Bulls.

In quell’anno, infatti, arriva il secondo ritiro. Resta fuori dai campi per tre anni in cui diventa dirigente e co-proprietario dei Washington Wizards. Il 25 settembre del 2001 riallaccia le scarpe, marchio Jordan, e riprende a divertirsi e a divertire con i “maghi” della Capitale. Gioca il suo ultimo match, a 40 anni, il 16 aprile del 2003. Ultimo, stavolta, per davvero.

Nella sua carriera ha segnato più di 30 mila punti, il quinto assoluto, e per 10 volte ha vinto il titolo di miglior realizzatore. Cinque volte è stato insignito del premio di “miglior giocatore della stagione” (MVP), un premio che dal 2022 porta il suo nome. Nel 2009 è entrato, di diritto, nella Hall of Fame, sotto ,o sguardo attendo di Naismith, il creatore del gioco. È uno dei pochissimi atleti che può vantare in bacheca almeno un titolo Ncaa, un titolo Nba e una medaglia d’oro alle Olimpiadi. 

Essere Jordan

Ma Jordan non è stato solo uno degli atleti più incredibili della storia dello sport. Senza social o altri strumenti digitali, è diventato una “macchina da soldi” legando il suo nome a quello della Nike prima e, dal 1997, dando vita alla sua azienda. Nel primo anno di contratto con “il baffo” ha sfiorato i 130 milioni di dollari di prodotti venduti. Un ragazzino dalle uova d’oro. Tutti indossavano le sue scarpe, le sue canotte, i suoi cappellini. Persino i polsini, griffati Jordan, erano usati nelle palestre di tutto il mondo. Ogni ragazzino mostrava la lingua dopo aver segnato un canestro, sognando di diventare come lui. Le sue scarpe, in molteplici edizioni, vengono ancora battute all’asta per cifre a cinque zeri. Una maglia della North Carolina ha superato, e di molto, il milione di dollari. Una dei Bulls, i 10 milioni. 

E poi c’è la carriera da attore. Space Jam, uscito nel 1996, è una pietra miliare dell’animazione hollywoodiana. L’incasso supera i 90 milioni di dollari. Canzoni come “I believe I can fly” di R Kelly, uscito quello stesso anno, diventa iconica legandosi alle aspirazioni dell’adolescente Jordan, palla in mano, davanti a un canestro di periferia, sotto lo sguardo benevolo del padre. 

In questa storia, però, ci sono anche diverse delusioni. Il baseball, come detto. Ma anche la carriera dirigenziale. Nel 2010 Jordan diventa il proprietario di una franchigia Nba, i Charlotte Bobcats (oggi Hornets). Lo Stato è sempre quello, non si sfugge, il North Carolina. Per ora, però, la squadra non hai mai gioito, mai esultato. Tante scelte al draft sprecate, accuse di disinteresse, egocentrismo, poca apertura al consiglio altrui. Se Jordan è forse il più popolare tra i giocatori della Nba, è sicuramente uno dei più impopolari tra gli “owner”.

L’inversione di marcia sembra sempre più difficile ma il tempo, per fortuna, non gli manca. Sessant’anni, in fondo, non sono così tanti. Soprattutto per uno che è rinato, più e più volte, dalle proprie ceneri sportive. Intanto, per questa sua ennesima festa, ha deciso di fare un regalo agli altri donando 10 milioni di dollari a “Make a Wish”, una delle organizzazioni più note negli Stati Uniti con cui collabora da più di trent’anni. Un altro canestro, ben fatto, per festeggiare, al meglio, i primi 60 anni di basket e vita.

AGI – È incredibile ma sono già 60. Per chi ha vissuto l’epopea di Micheal Jordan, dentro e fuori dal campo, è strano pensare che il più forte leader di tutti i tempi, non solo su un parquet di basket, stia già spegnendo tutte quelle candeline. Nella testa le immagini, come diapositive, sono indelebili.
La leggerezza dei suoi movimenti con la maglia di North Carolina, matricola terribile, secco e magro come un grissino. Il suo arrivo in Nba, terza scelta del 1984, dietro Olajuwon e Sam Bowie. Un anno clamoroso, quello, con giocatori del calibro di Barkley e Stockton. Quella maglia dei Bulls, rossa o nera, sudata e consumata da cima a fondo, in ogni partita. La testa pelata, lo sguardo torvo, la lingua fuori.
Il binomio con Pippen, col ‘santone’ delle panchine, Phil Jackson. Gli scambi, tra il faceto e il furioso, con Dennis Rodman, Luc Longley, Horace Grant, Steve Kerr. Essere compagno di Micheal è stato un privilegio ma, per molti, anche una tortura continua. Leadership fa rima con pretesa. Le rivalità con i Pistons, i Knicks, i Celtics, i Lakers e i Jazz. Con Larry Bird, Magic Johnson, Isaiah Thomas e Patrick Ewing.
 
E poi, ancora, tutti quei canestri, a fil di sirena, incredibili. Quel ritiro strano, inaspettato. La morte del papà e la parentesi ‘baseball’, un fiasco clamoroso. Il ritorno, allora, in pompa magna. Le luci dello United Center, tutte per lui. Il marchio sulle scarpe, vestiti, borse. La sua silhouette. Ovunque. Persino Bugs Bunny, Space Jam e tutto il circo di Hollywood fino ad arrivare a The Last Dance, clamoroso successo firmato Netflix in tempo di pandemia. E poi la vecchiaia sportiva. I lampi di genio cestistico, con la palla mano, sempre più rari ma sempre più epici.
L’abbraccio ai Wizards, il ruolo di dirigente, quello da proprietario, a Charlotte, e le scelte, troppo, sbagliate. E allora tutto, nella testa, sembra mescolarsi e confondersi nel frullatore del tempo. E allora stop, rewind. Sessant’anni vanno ricordati, sistemati. Per bene.
Gli inizi
Michael Jeffrey Jordan è nato il 17 febbraio 1963, figlio di James e Deloris Jordan. Dopo una breve parentesi newyorchese la famiglia si sposta a Wilmington, North Carolina. È un luogo di basket, soprattutto universitario. North Carolina University, Duke, Wake Forest, Davidson, tra le tante. La Tobacco Road, percorso di culto, che collega assi, cesti e imprese. Micheal inizia a giocare a basket sulle orme del fratello. Entrambi con la maglia 45. Per questo, a volte, il più piccolo è costretto a sceglierne un altro. Opta per il 23, la metà arrotondata. Quel numero è oggi storia e lo identificherà sempre, per tutta la carriera.

La sua è una gioventù ribelle “raddrizzata” dal padre che lo toglie dalle compagnie pericolose, obbligandolo a dedicarsi, anima e core, allo sport. Dopo l’high school ottiene una borsa di studio alla North Carolina University. È un College rinomato con una delle squadre con più tradizione della Ncaa (il campionato universitario). Essere scelti lì, indossare quei colori, è un privilegio.
Nel 1982 Micheal guida la squadra alla vittoria del titolo nazionale con un canestro, in sospensione, marchio di fabbrica, contro Georgetown. Gli scout Nba hanno già il suo nome nei loro taccuini. Ora lo sottolineano con la matita rossa. “Quella vittoria mi ha dato la sicurezza di cui avevo bisogno per eccellere nel gioco”, ricorderà. Mike, insomma, è diventato Micheal. Il suo legame con quell’Università resterà sempre fortissimo tanto da farlo scendere in campo, in Nba, tenendo sempre sotto quelli dei Bulls anche i calzoncini celesti dei ‘Tar Heels’.
La Nba
L’arrivo in Nba, invece, è altalenante. Jordan sale e scende dalle montagne russe, cade e si rialza, illumina e si chiude in sé. Vince il titolo di matricola dell’anno ma durante il secondo anno si rompe un piede. La riabilitazione è faticosa ma gli permette di acquisire ulteriore forza mentale. Vince titoli personali ma deve aspettare 6 anni per consegnare il primo titolo della storia ai suoi Bulls e alla città di Chicago. Il 28 marzo del 1990, diventa leggenda, segnando 69 punti contro Cleveland. In tutta la sua carriera supererà la soglia dei 60 punti ben 5 volte.
Quell’anno inizia ufficialmente la dinastia di Michael Jordan e dei Bulls. Tre titoli in fila, “il famoso three-peat”. Nessuno ci era riuscito tra i grandi nell’epoca. Non Bird con i Celtics, non Magic Johnson con i Lakers. I suoi grandi rivali. Jordan lo sa e lo ribadisce quando può. In mezzo, inoltre, ci sono le famose Olimpiadi di Barcellona 1992 e il dream team degli Usa. La squadra più forte mai scesa su un parquet. È oro, ovviamente. È il leader, emotivo, tra un canestro e una buca da golf, insieme ai suoi “amici-nemici” di sempre.
Qualcosa si spezza nel 1993. Il 22 agosto il padre, James, venne ucciso mentre fa ritorno dal funerale di un amico. Si ferma, in macchina, per riposare. Due malviventi lo trovano, lo uccidono e gli rubano l’auto. È uno shock. Pochi mesi dopo arriva l’annuncio del ritiro. Il padre voleva vederlo giocare su un diamante e lui prova. adaccontentarlo. Ma la parentesi dura poco. Il livello è troppo alto e Michael decide, il 18 marzo del 1995, di tornare al suo amore, il basket, e a casa sua, Chicago. Lo fa con sole due parole: “Sono tornato”. È un clamoroso ritorno. Altra tripletta in fila, altri record. Altri tre titoli per Chicago e per i Bulls. Il suo nome diventa immortale. Il canestro contro gli Utah Jazz e Byron Russell, di talento e mestiere, è ancora considerato tra i capolavori del gioco. È il 14 giugno del 1998, l’ultimo atto di Jordan con i Bulls.
In quell’anno, infatti, arriva il secondo ritiro. Resta fuori dai campi per tre anni in cui diventa dirigente e co-proprietario dei Washington Wizards. Il 25 settembre del 2001 riallaccia le scarpe, marchio Jordan, e riprende a divertirsi e a divertire con i “maghi” della Capitale. Gioca il suo ultimo match, a 40 anni, il 16 aprile del 2003. Ultimo, stavolta, per davvero.
Nella sua carriera ha segnato più di 30 mila punti, il quinto assoluto, e per 10 volte ha vinto il titolo di miglior realizzatore. Cinque volte è stato insignito del premio di “miglior giocatore della stagione” (MVP), un premio che dal 2022 porta il suo nome. Nel 2009 è entrato, di diritto, nella Hall of Fame, sotto ,o sguardo attendo di Naismith, il creatore del gioco. È uno dei pochissimi atleti che può vantare in bacheca almeno un titolo Ncaa, un titolo Nba e una medaglia d’oro alle Olimpiadi. 
Essere Jordan
Ma Jordan non è stato solo uno degli atleti più incredibili della storia dello sport. Senza social o altri strumenti digitali, è diventato una “macchina da soldi” legando il suo nome a quello della Nike prima e, dal 1997, dando vita alla sua azienda. Nel primo anno di contratto con “il baffo” ha sfiorato i 130 milioni di dollari di prodotti venduti. Un ragazzino dalle uova d’oro. Tutti indossavano le sue scarpe, le sue canotte, i suoi cappellini. Persino i polsini, griffati Jordan, erano usati nelle palestre di tutto il mondo. Ogni ragazzino mostrava la lingua dopo aver segnato un canestro, sognando di diventare come lui. Le sue scarpe, in molteplici edizioni, vengono ancora battute all’asta per cifre a cinque zeri. Una maglia della North Carolina ha superato, e di molto, il milione di dollari. Una dei Bulls, i 10 milioni. 
E poi c’è la carriera da attore. Space Jam, uscito nel 1996, è una pietra miliare dell’animazione hollywoodiana. L’incasso supera i 90 milioni di dollari. Canzoni come “I believe I can fly” di R Kelly, uscito quello stesso anno, diventa iconica legandosi alle aspirazioni dell’adolescente Jordan, palla in mano, davanti a un canestro di periferia, sotto lo sguardo benevolo del padre. 

In questa storia, però, ci sono anche diverse delusioni. Il baseball, come detto. Ma anche la carriera dirigenziale. Nel 2010 Jordan diventa il proprietario di una franchigia Nba, i Charlotte Bobcats (oggi Hornets). Lo Stato è sempre quello, non si sfugge, il North Carolina. Per ora, però, la squadra non hai mai gioito, mai esultato. Tante scelte al draft sprecate, accuse di disinteresse, egocentrismo, poca apertura al consiglio altrui. Se Jordan è forse il più popolare tra i giocatori della Nba, è sicuramente uno dei più impopolari tra gli “owner”.
L’inversione di marcia sembra sempre più difficile ma il tempo, per fortuna, non gli manca. Sessant’anni, in fondo, non sono così tanti. Soprattutto per uno che è rinato, più e più volte, dalle proprie ceneri sportive. Intanto, per questa sua ennesima festa, ha deciso di fare un regalo agli altri donando 10 milioni di dollari a “Make a Wish”, una delle organizzazioni più note negli Stati Uniti con cui collabora da più di trent’anni. Un altro canestro, ben fatto, per festeggiare, al meglio, i primi 60 anni di basket e vita.

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