Una “sistematica quanto capillare depredazione di risorse pubbliche”, attraverso “una attenta regia delinquenziale”, così privando “migliaia di giovani disoccupati” della “speranza di trovare occupazione”. Questo scrivono, in sintesi, i giudici nelle motivazioni della sentenza sulla “Formazione d’oro”, depositate a quasi un anno di distanza dalla condanna a 11 anni per il deputato ex pd e oggi forzista Francantonio Genovese.
Sono 500 le pagine, firmate dai giudici della prima sezione penale del tribunale di Messina (Maria Pina Scolaro, Massimiliano Micali e la presidente Silvana Grasso), in cui si motiva punto per punto la condanna nei confronti del parlamentare uscente – e di altri 19 imputati, tra i quali il cognato Franco Rinaldi (due anni e sei mesi) – per i reati di associazione a delinquere, riciclaggio, frode fiscale, truffa e tentata estorsione (quest’ultima ai danni dell’ex dirigente regionale Ludovico Albert). Motivazioni che sono occasione, per i giudici messinesi, di un’attenta disamina del sistema della formazione professionale, non senza una bacchettata, ribadita più volte, al sistema di controlli della Regione, definiti “assolutamente inadeguati”.
Una sentenza per due, anzitutto, spiegano i giudici: l’inchiesta della procura infatti ha portato a due processi, ma quello per il quale si sono pronunciati – “Corsi d’oro 2” – è in sostanza il secondo capitolo di “Corsi d’oro 1”, perché “la maggior parte delle fattispecie delittuose in contestazione sottendono una matrice comune”. Una matrice per un unico chiaro scopo, la sottrazione di denaro pubblico, quantificato nelle motivazioni in 43 milioni di euro, attraverso “un meccanismo criminale nel quale l’ente di formazione (e in particolare l’Aram e la Lumen) depauperato della nobile funzione che in teoria ne avrebbe dovuto guidare l’azione (ossia consentire, in una realtà economicamente depressa quale quella siciliana, ai giovani disoccupati di acquisire professionalità da spendere nel mondo del lavoro) è divenuto il canale per garantire l’arricchimento di pochi”.
“Le ragioni di ciò appaiono fin troppo evidenti – continua la corte – Non è il desiderio di offrire una speranza di occupazione alle migliaia di giovani disoccupati che, di regola privi di un personale bagaglio formativo, hanno intravisto nei corsi di formazione una concreta possibilità di riscatto, non è il perseguimento di alcun fine nobile. L’ente di formazione è, per un verso, un imponente bacino cui attingere consenso elettorale (ciò vale all’evidenza per l’imputato Genovese) e, per altro verso, solo lo strumento per appropriarsi di denaro pubblico”.
Perfino attraverso pressioni su Ludovico Albert, all’epoca dirigente generale della Formazione professionale. Genovese è stato infatti condannato in primo grado anche per tentata estorsione, perché “di fronte alle sue resistenze di assecondare la richiesta di intervenire sulla graduatoria in favore della Training Service, gli disse: ‘ti dovremo attaccare a 360 gradi'”. “Nessun dubbio – secondo il tribunale di Messina – che i termini del dialogo e dell’attacco minacciato dal deputato Genovese furono quelli appena ricostruiti, posto che, al di là dell’esatta enunciazione verbale, ha trovato pieno riscontro nelle dichiarazioni rese dall’imputato Salvatore La Macchia”, che ha “confermato integralmente”.
Nelle 500 pagine appena depositate c’è anche un passaggio su Repubblica. Si tratta di un’intercettazione:
a parlare sono Franco Rinaldi e la moglie Elena Schirò, poco dopo le prime notizie riguardo all’inchiesta sulla Formazione che avevano riguardato Schirò, che per questo decise di dimettersi. È il 12 dicembre del 2012, Rinaldi si rivolge così alla moglie: “Senti, siccome ho quelli di Repubblica, mi rompono i coglioni…”. E lei risponde: “Allora, Franco, dici che io mi sono dimessa da legale rappresentante”.