Per anni è stata una linea retta, tracciata con il righello dell’ideologia e l’inchiostro dell’urgenza climatica. Ora, improvvisamente, quella linea comincia a piegarsi. Non spezzarsi – sarebbe troppo – ma flettersi quanto basta per evitare l’impatto frontale con la realtà industriale europea. Sull’automotive dell’Unione Europea si intravede una svolta, attesa, temuta e contestata. E proprio per questo inevitabile.
Il Green Deal, nella sua versione più rigida, aveva imposto una traiettoria senza alternative: zero emissioni al 2035, punto e a capo. Una data scolpita nella pietra che, più che guidare la transizione, rischiava di trasformarsi in una ghigliottina per un settore già sotto pressione. Oggi, dalle anticipazioni che filtrano da Bruxelles, quella roccia sembra meno solida. L’ipotesi sul tavolo è una revisione profonda del regolamento sulle emissioni di CO₂ delle auto: non più il 100% di riduzione, ma un target del 90%. Un numero che, dietro l’apparente prudenza matematica, cambia tutto.
Un 10% che fa la differenza
Perché quel dieci per cento residuo è una fessura. Piccola, ma decisiva. Riapre la porta al motore termico, non come nostalgico ritorno al passato, ma come parte di un ecosistema tecnologico più ampio. Finora, infatti, il divieto non era scritto nero su bianco, ma era nei fatti: limiti così stringenti da rendere vendibili solo veicoli a zero emissioni. La nuova impostazione ribalta la logica. Non impone una tecnologia, ma un risultato. E lascia ai costruttori il compito – e la responsabilità – di scegliere come arrivarci.
È il principio della neutralità tecnologica, cavallo di battaglia di Italia e Germania. “Tutte le tecnologie resteranno sul mercato”, ha anticipato Manfred Weber, capogruppo del Ppe, definendo comunque “molto ambiziosa” la soglia del 90%. Ambiziosa, sì. Ma forse finalmente compatibile con la sopravvivenza di un’industria che occupa milioni di persone e rappresenta uno degli ultimi bastioni manifatturieri del Continente.
Roma non usa mezzi termini. “Non accetteremo misure tampone”, ha avvertito il ministro Adolfo Urso. “Serve una svolta chiara, fatta di riforme profonde, efficaci e strutturali”. Tradotto: niente rinvii, niente date spostate più in là per guadagnare tempo. Cambia l’impianto, non il calendario. Ed è qui la vera novità. Il 100% non verrebbe rinviato al 2040: verrebbe superato, sostituito da un sistema di compensazioni delle emissioni lungo l’intera filiera.
Si affacciano le tecnologie alternative
In questo nuovo quadro trovano spazio biocarburanti ed e-fuels, le elettriche con range extender e, nodo politicamente sensibile, le ibride plug-in. Soluzioni imperfette per i puristi, ma concrete per chi deve produrre, vendere e lavorare. È la politica che torna a fare i conti con l’ingegneria, e non solo con i grafici. Accanto agli standard sulle emissioni, il pacchetto includerebbe anche misure industriali: incentivi per chi produce in Europa, una strategia sulle batterie, una nuova categoria normativa per le utilitarie elettriche con requisiti ridotti. E poi il capitolo più controverso: le flotte aziendali, divise tra chi chiede obiettivi vincolanti e chi preferisce semplici raccomandazioni.
Il compromesso, però, non è ancora sigillato. Francia e Spagna continuano a difendere l’impianto originario. I Verdi parlano apertamente di arretramento, di incertezza regolatoria, di messaggio sbagliato al mercato. Ma la politica europea non vive nel vuoto. Vive nelle fabbriche che chiudono, negli investimenti che fuggono, nei posti di lavoro che tremano. La sintesi finale spetterà al collegio dei commissari. E soprattutto a Ursula von der Leyen, chiamata a tenere insieme competitività industriale, occupazione e credibilità climatica. È uno dei dossier più delicati della nuova legislatura. Perché non si tratta di scegliere tra “verde” e “grigio”, ma molto di più.