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Gigi Proietti, l’Olivier maschio con il fischio

Nov 3, 2021

AGI – Seduto lungo l’argine del fiume, il cavaliere guarda meditabondo la luna che si riflette nell’acqua. Non è nè il cavaliere bianco, nè il cavaliere nero, sennò sarebbero brutte prospettive. Una voce cavernosa emerge dal nulla, con il suo accento toscano. Brancaleone sussulta: “Chi è? Chi sie?”. “Son la tua morte! Non mi chiamasti?”. “I-io?”. “Sì. Fosti tu a invocarmi!”. “Ah, aah sì… parole che sfuggono, nell’empito dei sentimenti… e che si sape mai furon prese a serietà”. “D’ora innante lo saranno. Preparat’a morire!”. “Lo come? In sull’istante?”. No, non sull’istante. Molti anni dopo. Un anno fa. Perchè quella voce, così toscana da soddisfare lo stesso Monicelli, era di un giovanissimo Gigi Proietti, il più romano della sua generazione. Ma così romano, e così attore, che sapeva essere al contempo anche toscano e palermitano, cantando la dolorosa storia della Baronessa di Carini. E petulanti bambini siciliani venivano lasciati soli, nelle stanze di quel castello, a sentirsi rimbombare nelle orecchie la sua voce.

Se sul palcoscenico l’illusione è verità, figuriamoci nella vita. Proietti moriva, per l’appunto, dodici mesi orsono, e Roma in lockdown gli tributava l’omaggio del corteo attraverso le strade della Capitale. L’ultima volta che era capitato, lo fu per Marcantonio II Colonna, il Principe ribelle, l’uomo che aveva battuto i Turchi a Lepanto. Si dirà: ennesima riprova della decadenza. Per favore, siamo seri: l’uomo più influente dell’Urbe, al tempo dei Giulio-Claudi, era l’attore Macrone. Niente di nuovo sotto il Sole di Roma, siamo sempre lì, poveri ma belli.

Perchè di presenza lo era, Proietti, e non solo per il fisico non certo disprezzabile, quanto piuttosto per quella maschera in cui scucchia e naso e occhio, solo un pò alla Totò e parecchio alla Petrolini, riuscivano alla fine armoniosi, o se no erano armoniosi almeno accattivanti. E un attore cosa può desiderare di più? Dice qualcuno che il suo sia l’ennesimo caso di talento naturale debordante quanto romanescamente buttato un pò via dalla finestra. Chissà se è vero, ma se non ha mai raggiunto Laurence Olivier lo ha fatto perchè in fondo troppa arte stucca, e costa anche fatica. Vuoi mettere con il gusto di una carbonara a Piazza Tuscolo. Anche Totti, per motivi analoghi, rinunciò al Real Madrid, e mica se ne è pentito. Ciao, ‘nvidiosi.

Poi, in fondo, Proietti il Chelsea se lo è fatto in casa, sotto forma di teatro in legno senza panche, tale e quale a quello di Shakespeare, cui lui era molto affezionato. Il Globe a Villa Borghese è ancora funzionante, segno che l’idea era giusta, e anche se ne esci letteralmente con il sedere quadrato ti sei visto un gran bel Molto Rumore per Nulla.

I cavalli di battaglia non muoiono mai, scompaiono al massimo dietro le quinte. Soprattutto diventare come Olivier comporta essere chiusi in un modello. Se nei hai tanti, dal tragico al cabaret, alla fine non sai scegliere: l’artista puro non è in grado di stabilire gerarchie. Una cosa vale l’altra perchè tutte sono inestimabili, basta giudicare dal grado di soddisfazione.

Per questa ragione Proietti non ebbe paura ad iniziare con Brecht, Moravia e le sperimentazioni. Poi andò a Canzonissima e fece un numero coi piatti da trappare l’applauso dalle mani. Quella sera, a suggello del successo, invitò a casa i genitori che l’avrebbero voluto avvocato (studi in legge, effettivamente) a vedere la messa in onda. Finito lo sketch, si girò da loro come a dire “E allora?”. Li sorprese che si scambiavano un’occhiata perplessa. Poi lei fece al marito: “Boh .”

L’anno dopo era ancora lì, in tv, Fatti e fattacci, a inaugurare i suoi grandi monologhi: il fattaccio del vicolo del Moro, il Terremoto di Avezzano. Bravo, verrebbe da dire se non fosse citazione abusata, come Mandrake. Più di Mandrake, più anche di Shakespeare, che – il poveretto a corto d’idee – non ebbe mai il coraggio di far entrare Romeo in un’osteria di Verona a chiedere un whisky maschio con il fischio. Si sa, il talento riconosce il talento, e non ne è geloso. Fu così che una sera, guardando per una volta lui gli altri in televisione, vide un argentino affacciato ad un balcone e ne intuì le straordinarie potenzialità. Commentò: “Questo mi ruba il mestiere”.

Sicuramente Proietti non è mai diventato papa, ma forse il Papa qualcosa in comune con Proietti lo ha. Proprio oggi ne ha dette di tutti i colori sulla retorica della morte in guerra per gli ideali: “Questi (i morti dei cimiteri militari) sono le vittime delle guerre, che divorano i figli della Patria”. E allora ti viene in mente quando, nel 2003, Proietti leggeva Trilussa per spiegare che la “guera è ‘n gra giro de quatrini” e la retorica è qualcosa “per il popolo cojone che è scampato dar cannone”. Laurence Olivier non sarebbe mai riuscito ad esser così grande.

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