Vi è una particolare branca degli studi biologici che, dopo circa un secolo di silenzio, grazie a nuove conoscenze acquisite negli ultimi 20-30 anni ha ripreso vigore. È uno di quei settori che più accendono l’interesse non solo degli scienziati, ma anche del vasto pubblico, e credo quindi che possa essere interessante accennarvi brevemente. L’idea che la vita possa compiere viaggi interplanetari, venendo disseminata da un pianeta ad un altro – una teoria chiamata panspermia – non è certo nuova: i primi accenni frammentari provengono dal forse dal filosofo greco presocratico Anassagora, vissuto fra il 500 e il 428 a.C. Anassagora, nelle sue riflessioni cosmologiche, menziona due volte i “semi” (in greco, spermata) come parte del cosmo, sebbene non chiarisca direttamente il significato della parola; secondo recenti interpretazioni, questi semi sono i semi della vita, che diffondono nel cosmo e attecchiscono su infiniti mondi.
Il medico tedesco Hermann Richter fu il primo a far rivivere la panspermia alla luce di nuove considerazioni, e il primo a chiamarla così. Nel 1865, egli chiamò la vita extraterrestre cozmozoa e suggerì che la panspermia fosse “coerente con le opinioni stabilite in altri campi della scienza; fornisce la pietra angolare per l’audace edificio di Darwin.” (ricordiamo che Darwin non si pronunciò sull’origine della vita). Lord Kelvin scrisse a sua volta nel 1871: “Dobbiamo considerare come probabile al massimo grado che ci siano innumerevoli pietre meteoriche portatrici di semi che si muovono nello spazio. Se al momento attuale non esistesse alcuna vita su questa Terra, una tale pietra che cadesse su di essa potrebbe, per quelle che chiamiamo ciecamente cause naturali, portarla a ricoprirsi di vegetazione.”
Le visioni degli scienziati e dei pensatori dei secoli passati peccarono forse di troppo ottimismo e di una certa dose di ingenuità, scontrandosi, nel ventesimo secolo, con la constatazione delle durissime e proibitive condizioni ritrovate nello spazio interplanetario: mancanza di ossigeno, estremi di temperatura, con punte bassissime durante un viaggio fra pianeti e altissime durante l’eventuale impatto di un meteorite che trasporti esseri viventi, e poi radiazioni ionizzanti provenienti dal sole, che distruggono le macromolecole biologiche, soprattutto il Dna, e radiazioni ultraviolette ad alta intensità, con gli stessi deleteri effetti. Eppure, recentemente un gruppo di eminenti scienziati del Mit e di Harvard ha impiegato un decennio, e una discreta quantità di finanziamenti della Nasa e di altre fonti, per progettare e produrre uno strumento che possa essere inviato su Marte e rilevare su quel pianeta la presenza di Dna o Rna, per dare fondamento alla speculazione che la vita possa essere giunta sulla Terra da Marte o che, al contrario, in passato, quando su Marte le condizioni erano molto più simili a quelle della Terra, esso fosse stato colonizzato da organismi terrestri.
Cosa è successo? Innanzitutto, si sono accumulate le prove dello scambio di meteoriti tra Marte e il sistema Terra-Luna: centinaia di impatti registrati sul nostro pianeta corrispondono ad oggetti provenienti dal pianeta rosso, ed un meteorite di origine terrestre è stato trovato sulla Luna, dimostrando lo scambio di materiale roccioso fra questi corpi celesti. In secondo luogo, la microbiologia degli ultimi decenni ha definitivamente cambiato la nostra concezione circa una supposta fragilità universale degli organismi viventi. Il batterio Deinococcus radiodurans è in grado di sopportare una dose acuta di 5.000 gray, o 500.000 rad, di radiazioni ionizzanti con quasi nessuna perdita di vitalità, e una dose acuta di 15.000 Gy con il 37% di vitalità. In queste condizioni, esso è stato trovato resistere ad esposizioni pluriennali nello spazio esterno, ed è parimenti intatto in presenza di radiazione ultravioletta ad alte dosi. Pyrococcus furiosus fiorisce ad una temperatura di 100 gradi centigradi, come molte altre specie resistenti anche ad acidi e a bassissime temperature grazie a fenotipi resistenti nello stato di dormienza. Un problema ulteriore è costituito dal tempo prolungato di un eventuale viaggio interplanetario, che può essere lunghissimo prima che un corpo proveniente da un dato pianeta impatti su di un altro. Tuttavia, nel 2020, sotto la superficie del fondo dell’oceano, sono stati trovate cellule batteriche sopravvissute probabilmente per 100 milioni di anni.
Tenendo presente queste caratteristiche degli organismi viventi terrestri, la sopravvivenza di batteri durante un viaggio interplanetario è più che possibile; per finire, anche la sopravvivenza all’impatto di un meteorite è stata dimostrata possibile, se batteri come quelli descritti dovessero annidarsi in profondità nelle sue crepe e ben al di sotto della superficie. Una volta su un nuovo pianeta, la fenomenale plasticità dei batteri nello sfruttare per il proprio metabolismo ogni fonte di energia è ben nota: zolfo, manganese, ammoniaca e altri composti chimici sono solo alcuni esempi di cosa possa alimentare la loro vita, per non parlare della semplice luce solare, a condizione che vi sia una fonte di carbonio (anche gassosa) e di pochi altri elementi chimici e dell’acqua almeno temporaneamente liquida. Questi ultimi vincoli sono ben superati su Marte, dove più alternative dei “giusti ingredienti” sono presenti; e forse, pure ammettendo che non sia mai stata presente su quel pianeta, è possibile che vi abbiamo noi portato vita microbica, visto che nelle camere sterili della Nasa, in condizioni proibitive create proprio per proteggere dalla contaminazione le componenti delle macchine che lanciamo nello spazio, sono state trovate colonie di batteri specializzati, forse già arrivati su Marte su uno dei lander che vi abbiamo inviato. Insomma: la probabilità che Anassagora e Lord Kelvin, insieme ad innumerevoli altri sognatori, avessero dopo tutto ragione, non è mai sembrata così alta.