Nel 1958 la Nba iniziava la sua tredicesima stagione, le franchigie iscritte al torneo era otto, sei si qualificavano ai playoff. Allora il meglio del basket americano, e dunque mondiale, era rappresentato da due formazioni: i St. Louis Hawks e i Boston Celtics. Da una parte la classe e l’intuito rivoluzionario di Bob Pettit, dall’altra la forza e l’intelligenza di Bill Russell coadiuvato dalle invenzioni di Bob Cousy e dal talento pratico di Tom Heinsohn e Sam Jones.
Il 1958 fu l’ultimo anno dell’èra pre Wilt Chamberlain, l’uomo che cambiò le vette altimetriche del basket americano. Fu il primo che vide la rivoluzione della gravità. A rendere desueto, almeno nella pallacanestro, ciò che aveva scoperto Isaac Newton fu un ragazzo di Washington D.C., Elgin Gay Baylor.
“Il mio gancio cielo è stata un’innovazione, un nuovo modo di tirare a canestro. Prima di me però ci fu chi si riuscì ad avvicinare il canestro all’uomo, a far credere a tutti che l’aria si fosse fatta più densa, che potesse sorreggere il corpo umano. Baylor è stato un’illusionista”, disse Kareem Abdul-Jabbar nel 2018, pochi giorni dopo l’inaugurazione della statua che i Los Angeles Lakers avevano dedicato a Baylor fuori dallo Staples Center. Una statua che resta sola, resta memoria. Elgin Baylor è morto ieri a 86 anni.
Baylor ai Lakers arrivò quell’anno, nel 1958, prima scelta assoluta al Draft. Ci arrivò che ancora era la franchigia di Minneapolis (e ancora aveva un senso geografico il nome, visti i numerosi laghi e laghetti che circondano la città), in un momento di transizione dopo le grandi vittorie a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta. L’uomo giusto nel momento sbagliato, quello dell’inizio della Dinasty dei Boston Celtics, la squadra più forte di allora, tra le più straordinarie della storia della Nba, sicuramente la più vincente: dodici Anelli vinti in tredici finali disputate in quattordici anni. Giusto quelli che Baylor giocò in Nba, a una media di 27.4 punti a partita, ancora adesso la terza migliore nella storia della lega americana. Trascinò i Lakers a otto finali, non ne vinse una. Disse basta nel 1972, a 37 anni e alle prese con acciacchi a ginocchia e spalle. Disse basta “per rispetto verso i tifosi, i Lakers e me stesso. Ho sempre voluto esprimermi in campo agli alti livelli a cui ho giocato per tutta la mia carriera. Non voglio continuare a giocare se non posso mantenere quegli standard”. Lo fece dopo nove partite a 26.6 punti di media, ma con la paura di andare a rimbalzo. Lo fece nell’anno sbagliato: i Lakers vinsero le finals. Fu una beffa del destino. “Doveva andare così”, si limitò a dire. Senza cruccio, con la consapevolezza che quella era stata la scelta giusta: il rispetto per se stessi e per il pubblico nella sua vita era stato sempre al primo posto, il valore più grande.
Baylor era così, prendere o lasciare. Al basket americano lasciò tanto. Ridisegnò il salto, l’andare a canestro, volò prima di tutti. Aveva gambe grosse e potenti, due tronchi che sembravano inadatti alla leggerezza. Eppure si muovevano con grazia incredibile, lasciavano il suolo e al suolo sembravano non tornare mai. “Prima che Michael Jordan facesse cose incredibili in aria, esisteva Elgin Baylor”. Così lo ha ricordato Magic Johnson, un’altra icona dei Lakers.
Fu lo stesso Jordan a dare a Baylor quello che era di Baylor. “Sono del 1963, quando ero piccolo ci si divideva tra chi amava Wilt Chamberlain, chi Kareem Abdul-Jabbar, chi Oscar Robertson. All’epoca il basket era più raccontato che visto. E si ricordavano soprattutto i vincento. Non ricordo la prima partita che ho visto, ma ricordo benissimo la prima volta che vidi giocare Baylor: wow. Peccato che lo scoprii tardi, in cassetta, ben dopo il suo addio”.
Baylor non vinse mai l’Anello, si limitò a riscrivere le leggi della gravità.
Nel 1958 la Nba iniziava la sua tredicesima stagione, le franchigie iscritte al torneo era otto, sei si qualificavano ai playoff. Allora il meglio del basket americano, e dunque mondiale, era rappresentato da due formazioni: i St. Louis Hawks e i Boston Celtics. Da una parte la classe e l’intuito rivoluzionario di Bob Pettit, dall’altra la forza e l’intelligenza di Bill Russell coadiuvato dalle invenzioni di Bob Cousy e dal talento pratico di Tom Heinsohn e Sam Jones.
Il 1958 fu l’ultimo anno dell’èra pre Wilt Chamberlain, l’uomo che cambiò le vette altimetriche del basket americano. Fu il primo che vide la rivoluzione della gravità. A rendere desueto, almeno nella pallacanestro, ciò che aveva scoperto Isaac Newton fu un ragazzo di Washington D.C., Elgin Gay Baylor.
“Il mio gancio cielo è stata un’innovazione, un nuovo modo di tirare a canestro. Prima di me però ci fu chi si riuscì ad avvicinare il canestro all’uomo, a far credere a tutti che l’aria si fosse fatta più densa, che potesse sorreggere il corpo umano. Baylor è stato un’illusionista”, disse Kareem Abdul-Jabbar nel 2018, pochi giorni dopo l’inaugurazione della statua che i Los Angeles Lakers avevano dedicato a Baylor fuori dallo Staples Center. Una statua che resta sola, resta memoria. Elgin Baylor è morto ieri a 86 anni.
Baylor ai Lakers arrivò quell’anno, nel 1958, prima scelta assoluta al Draft. Ci arrivò che ancora era la franchigia di Minneapolis (e ancora aveva un senso geografico il nome, visti i numerosi laghi e laghetti che circondano la città), in un momento di transizione dopo le grandi vittorie a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta. L’uomo giusto nel momento sbagliato, quello dell’inizio della Dinasty dei Boston Celtics, la squadra più forte di allora, tra le più straordinarie della storia della Nba, sicuramente la più vincente: dodici Anelli vinti in tredici finali disputate in quattordici anni. Giusto quelli che Baylor giocò in Nba, a una media di 27.4 punti a partita, ancora adesso la terza migliore nella storia della lega americana. Trascinò i Lakers a otto finali, non ne vinse una. Disse basta nel 1972, a 37 anni e alle prese con acciacchi a ginocchia e spalle. Disse basta “per rispetto verso i tifosi, i Lakers e me stesso. Ho sempre voluto esprimermi in campo agli alti livelli a cui ho giocato per tutta la mia carriera. Non voglio continuare a giocare se non posso mantenere quegli standard”. Lo fece dopo nove partite a 26.6 punti di media, ma con la paura di andare a rimbalzo. Lo fece nell’anno sbagliato: i Lakers vinsero le finals. Fu una beffa del destino. “Doveva andare così”, si limitò a dire. Senza cruccio, con la consapevolezza che quella era stata la scelta giusta: il rispetto per se stessi e per il pubblico nella sua vita era stato sempre al primo posto, il valore più grande.
Baylor era così, prendere o lasciare. Al basket americano lasciò tanto. Ridisegnò il salto, l’andare a canestro, volò prima di tutti. Aveva gambe grosse e potenti, due tronchi che sembravano inadatti alla leggerezza. Eppure si muovevano con grazia incredibile, lasciavano il suolo e al suolo sembravano non tornare mai. “Prima che Michael Jordan facesse cose incredibili in aria, esisteva Elgin Baylor”. Così lo ha ricordato Magic Johnson, un’altra icona dei Lakers.
Fu lo stesso Jordan a dare a Baylor quello che era di Baylor. “Sono del 1963, quando ero piccolo ci si divideva tra chi amava Wilt Chamberlain, chi Kareem Abdul-Jabbar, chi Oscar Robertson. All’epoca il basket era più raccontato che visto. E si ricordavano soprattutto i vincento. Non ricordo la prima partita che ho visto, ma ricordo benissimo la prima volta che vidi giocare Baylor: wow. Peccato che lo scoprii tardi, in cassetta, ben dopo il suo addio”.
Baylor non vinse mai l’Anello, si limitò a riscrivere le leggi della gravità.