• 29 Novembre 2024 5:31

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Edmundo e il mezzo secolo da O’ Animal

Apr 2, 2021

L’Edmundo furioso. Instabilità emozionale, colpi di matto, bizze da bambino viziato. Irascibile, arrogante, collerico. Non era bello, ma era scontroso. Un traliccio ad alta tensione, piantato in mezzo all’area avversaria. Cinquant’anni oggi 2 aprile per il campione più incazzoso della storia del calcio. Il ghigno e l’occhio che brilla di follia sono quelli di Jack Nicholson in Shining, quando con un’ascia sfonda la porta dove si è nascosta Wendy. “È irrecuperabile” sentenziò rassegnata Susy Fleury, la psicologa assoldata dalla Selecao per sondare il pozzo buio della sua anima. Vita spericolata, quella di Edmundo. E l’ha sempre voluta piena di guai. In fuga da tutto, prima di tutto da se stesso.

 

Tra un carnevale ed un altro, ha giocato a pallone quasi vent’anni (1990-2008), lasciando spesso intendere che – se solo si fosse riappacificato con se stesso – avrebbe potuto scrivere il suo nome nel pantheon dei più grandi brasiliani della sua generazione. Pezzo forte del repertorio il controllo di palla. Il passo è felpato, la corsa è una scossa, impossibile togliergli il pallone dai piedi. Impressionante la precisione balistica: ha un tiro poco armonioso, ma potente e definitivo. Una via di mezzo tra Ronaldo il Fenomeno e Romario, i due fuoriclasse che però gli stanno un giro di pista avanti. Diventa presto noto come O’ Animal. Il soprannome glielo assegna per primo un giornalista brasiliano, Osmar Santos. Non c’è nessun riferimento alla sua indole, semplicemente O’ Animal per Santos sta a indicare il mattatore delle partite che commenta. Poi il soprannome gli è rimasto addosso, per via di quel carattere da sberle in faccia.

 

Prima e ultima tappa della sua carriera il Vasco da Gama, la squadra del cuore sognata fin da bambino cresciuto povero nel barrio do Fonseca a Niteròi, a Rio, di padre alcolizzato che sfogava la rabbia repressa picchiando la madre. Tre paesi (Brasile, Italia, Giappone), dodici maglie indossate, due nella nostra Serie A: Fiorentina (una stagione e mezza: gennaio 1998-giugno 1999) e Napoli (un’insulsa manciata di mesi: gennaio-maggio 2001). Ha sempre avuto rapporti tesi con tutti, compagni e avversari. Detestava Batistuta, troppo argentino per i suoi gusti. Quando Bati segnava, Edmundo si girava dall’altra parte. Accusò Rui Costa di essere invidioso. Mise le mani addosso a Bigica, che in allenamento gli aveva passato male il pallone. Cecchi Gori per averlo aveva speso 13 miliardi di lire. Contratto di quattro anni, 2 miliardi secchi di ingaggio a stagione. Appena arrivato Malesani lo mise in panchina. La replica di Edmundo: “Non sono mai stato in panchina nemmeno quando avevo otto anni”. Bilancio finale in un campionato e mezzo in maglia viola: 37 partite, 12 gol, una fuga con cui si attirò le maledizioni eterne dei tifosi viola. Successe nel febbraio del 1999, la Fiorentina di Trapattoni era in corsa per lo scudetto. Ciaone di Edmundo, che se ne fregò e partì per il Carnevale di Rio. In Italia arrivarono le immagini del Marchese del Grillo – Io so io e voi nun siete un ca*** – che ballava la samba a Copacabana. Dopo un paio di stagioni in Brasile, arieccolo in Serie A, stavolta al Napoli. Pochi mesi, nessun lampo, si trascinava per il campo, insopportabile come un adolescente annoiato di tutto.

 

Due matrimoni falliti, quattro figli riconosciuti, due in attesa di esserlo, un fratello criminale assassinato da una gang brasiliana e abbandonato nel bagagliaio di una macchina, come in un blockbuster troppo prevedibile. La sua fedina penale sembra quella di una comparsa dei “Good Fellas”: nel 1995 è stato anche condannato a quattro anni e mezzo per omicidio colposo – con la sua Jeep Cherokee ha provocato un incidente in cui sono morte tre persone – nel 2000 viene denunciato per aver riempito di vodka uno scimpanzé, comprato al circo per il compleanno del figlio. Quanta tristezza, quanta rabbia muta, quanta Saudade: da quando ha smesso si è reinventato opinionista televisivo, nello sguardo un tempo feroce c’è un’ombra di malinconia. Qualche anno dopo essersene andato dall’Italia Edmundo disse: “Nessuno mi ha mai chiesto se ero felice”. Ah. Fermi tutti. Allora forse è un altro film.

L’Edmundo furioso. Instabilità emozionale, colpi di matto, bizze da bambino viziato. Irascibile, arrogante, collerico. Non era bello, ma era scontroso. Un traliccio ad alta tensione, piantato in mezzo all’area avversaria. Cinquant’anni oggi 2 aprile per il campione più incazzoso della storia del calcio. Il ghigno e l’occhio che brilla di follia sono quelli di Jack Nicholson in Shining, quando con un’ascia sfonda la porta dove si è nascosta Wendy. “È irrecuperabile” sentenziò rassegnata Susy Fleury, la psicologa assoldata dalla Selecao per sondare il pozzo buio della sua anima. Vita spericolata, quella di Edmundo. E l’ha sempre voluta piena di guai. In fuga da tutto, prima di tutto da se stesso.
 
Tra un carnevale ed un altro, ha giocato a pallone quasi vent’anni (1990-2008), lasciando spesso intendere che – se solo si fosse riappacificato con se stesso – avrebbe potuto scrivere il suo nome nel pantheon dei più grandi brasiliani della sua generazione. Pezzo forte del repertorio il controllo di palla. Il passo è felpato, la corsa è una scossa, impossibile togliergli il pallone dai piedi. Impressionante la precisione balistica: ha un tiro poco armonioso, ma potente e definitivo. Una via di mezzo tra Ronaldo il Fenomeno e Romario, i due fuoriclasse che però gli stanno un giro di pista avanti. Diventa presto noto come O’ Animal. Il soprannome glielo assegna per primo un giornalista brasiliano, Osmar Santos. Non c’è nessun riferimento alla sua indole, semplicemente O’ Animal per Santos sta a indicare il mattatore delle partite che commenta. Poi il soprannome gli è rimasto addosso, per via di quel carattere da sberle in faccia.
 
Prima e ultima tappa della sua carriera il Vasco da Gama, la squadra del cuore sognata fin da bambino cresciuto povero nel barrio do Fonseca a Niteròi, a Rio, di padre alcolizzato che sfogava la rabbia repressa picchiando la madre. Tre paesi (Brasile, Italia, Giappone), dodici maglie indossate, due nella nostra Serie A: Fiorentina (una stagione e mezza: gennaio 1998-giugno 1999) e Napoli (un’insulsa manciata di mesi: gennaio-maggio 2001). Ha sempre avuto rapporti tesi con tutti, compagni e avversari. Detestava Batistuta, troppo argentino per i suoi gusti. Quando Bati segnava, Edmundo si girava dall’altra parte. Accusò Rui Costa di essere invidioso. Mise le mani addosso a Bigica, che in allenamento gli aveva passato male il pallone. Cecchi Gori per averlo aveva speso 13 miliardi di lire. Contratto di quattro anni, 2 miliardi secchi di ingaggio a stagione. Appena arrivato Malesani lo mise in panchina. La replica di Edmundo: “Non sono mai stato in panchina nemmeno quando avevo otto anni”. Bilancio finale in un campionato e mezzo in maglia viola: 37 partite, 12 gol, una fuga con cui si attirò le maledizioni eterne dei tifosi viola. Successe nel febbraio del 1999, la Fiorentina di Trapattoni era in corsa per lo scudetto. Ciaone di Edmundo, che se ne fregò e partì per il Carnevale di Rio. In Italia arrivarono le immagini del Marchese del Grillo – Io so io e voi nun siete un ca*** – che ballava la samba a Copacabana. Dopo un paio di stagioni in Brasile, arieccolo in Serie A, stavolta al Napoli. Pochi mesi, nessun lampo, si trascinava per il campo, insopportabile come un adolescente annoiato di tutto.
 
Due matrimoni falliti, quattro figli riconosciuti, due in attesa di esserlo, un fratello criminale assassinato da una gang brasiliana e abbandonato nel bagagliaio di una macchina, come in un blockbuster troppo prevedibile. La sua fedina penale sembra quella di una comparsa dei “Good Fellas”: nel 1995 è stato anche condannato a quattro anni e mezzo per omicidio colposo – con la sua Jeep Cherokee ha provocato un incidente in cui sono morte tre persone – nel 2000 viene denunciato per aver riempito di vodka uno scimpanzé, comprato al circo per il compleanno del figlio. Quanta tristezza, quanta rabbia muta, quanta Saudade: da quando ha smesso si è reinventato opinionista televisivo, nello sguardo un tempo feroce c’è un’ombra di malinconia. Qualche anno dopo essersene andato dall’Italia Edmundo disse: “Nessuno mi ha mai chiesto se ero felice”. Ah. Fermi tutti. Allora forse è un altro film.

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