Lotus non chiuderà. Lo ha comunicato in modo perentorio ai ministri, dopo giorni di voci che parlavano di un trasloco in America. Il segretario per le imprese, Jonathan Reynolds, ha preteso spiegazioni ricevendo promesse: Hethel, in Norfolk, resta viva.
Smentito il rischio
Tutto è iniziato con i dazi Usa. L’America ha imposto un +25% sulle auto europee. Lotus spedisce negli Stati Uniti il 60% delle sue Emira, sportive da 75.000 sterline. Così Geely, il gruppo cinese proprietario, ha fermato le linee a maggio. Troppa merce ferma, troppi costi. A quel punto è spuntata l’idea di spostare la produzione: meno tasse doganali, più margini.
Il rischio era evidente: 1.300 posti di lavoro in bilico. Reynolds ha convocato i vertici domenica. Risultato: rassicurazioni. Lotus resta a Hethel. Eppure, dietro la stretta di mano, resta il piano B. Lo stesso Qingfeng Feng, capo di Lotus Technology, lo ha detto agli investitori: stanno trattando con partner americani per assemblare le auto sul posto. In futuro potrebbe convenire farlo.
Intanto i dazi scendono: dal 25% al 10%. Una boccata d’aria per Lotus, ma non una soluzione definitiva. Altri marchi inglesi, come Jaguar Land Rover o Bentley, hanno stoppato le spedizioni verso gli USA. Adesso riaprono, sperando nel nuovo accordo commerciale firmato l’8 maggio.
Il contributo del governo
Il governo prova a blindare lo stabilimento. Reynolds assicura tagli alle spese delle imprese e 2,5 miliardi per ricerca, sviluppo, impianti. Non è carità: perdere Lotus sarebbe un colpo all’immagine. Il Labour ha puntato tutto sull’industria dell’auto per tenere viva una parte di manifattura che pesa ancora su export e occupazione.
Sul territorio, Hethel ha un peso considerevole. Ben Goldsborough, deputato Labour del sud Norfolk, lo ha detto senza giri di parole: chiudere Lotus significa togliere pane a centinaia di famiglie e spezzare un pezzo di storia dell’ingegneria inglese. Per questo parla già di incentivi e partnership per blindare i posti di lavoro.
A Hethel Lotus può costruire fino a 5.000 Emira all’anno. Oltre a quella, nel capannone esce anche un hypercar elettrico da due milioni di sterline. Pochi esemplari, ma simbolici: il messaggio è che l’Inghilterra sa ancora fare auto da sogno.
Però nessuno si fa illusioni. I numeri contano più della nostalgia. Se produrre in America diventerà più conveniente, Lotus lo farà. Non oggi, non domani, ma lo farà. Intanto i lavoratori aspettano di tornare sulle linee. Produzione ferma per svuotare i magazzini, ma i contratti restano.
La pista cinese
Geely ha anche un impianto in Cina, dove già costruisce auto elettriche. Potrebbe spostare lì parte della produzione se conviene. Ma Hethel è la bandiera. E tagliarla significherebbe ammettere che la manifattura UK non regge più la sfida globale. Lotus, dal canto suo, ripete lo slogan: “Il Regno Unito è il cuore del marchio”. Parole che pesano, ma valgono finché l’aritmetica non dice altro. Per ora le tariffe in calo aiutano, ma le incertezze restano.
A conti fatti, la partita non si gioca solo tra Inghilterra e America. È una corsa globale. Tesla, BYD, Stellantis, tutti vogliono lo stesso mercato. Se Lotus non resta competitiva, rischia di finire stritolata.
Chi spera che basti la passione per i vecchi modelli sportivi si illude. Oggi vincono efficienza, filiera, costi bassi. Se l’equilibrio salta, Hethel diventa un museo. Il futuro? Ripresa a giugno, meno tasse USA, forse nuove partnership. Ma il segnale è chiaro: o il Regno Unito diventa conveniente per davvero, o le auto si costruiranno altrove. Lotus resta, ma la sfida comincia adesso.