• 5 Febbraio 2025 21:07

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Dalla cucina povera all’etica del cibo: la “sostenibilità” della tradizione napoletana

Feb 5, 2025

AGI – Il ragù, fatto con tagli di carne meno pregiati ma ricchi di sapore. La frittata di maccheroni, nata per non buttare la pasta avanzata. La minestra maritata, che unisce verdure e scarti di carne per un piatto completo e nutriente. La trippa alla napoletana, che valorizza le interiora con pomodoro e pecorino. E poi ancora la pizza di scarola, il baccalà fritto, la zuppa di cozze con pane raffermo. Quella napoletana è una cucina senza sprechi per natura, dove ogni ingrediente ha un ruolo e nulla viene scartato.

Oggi, nella Giornata nazionale contro lo spreco alimentare, tre protagonisti della gastronomia campana Gennaro Esposito, Sal De Riso e Luciano Pignataro, riflettono con l’AGI su come questo approccio non sia solo una memoria del passato, ma una strada per il futuro. Per lo chef stellato Gennaro Esposito, della Torre del Saracino, la questione non è recuperare per necessità, ma valorizzare con consapevolezza: “Non dobbiamo più parlare di cucina di recupero, ma di sano utilizzo degli alimenti. Prima ancora di pensare a una ricetta, bisogna conoscere il prodotto e capire come utilizzarlo al meglio in tutte le sue parti. Se metto in carta un piatto con il sedano, non posso usare solo il cuore e il resto buttarlo via: ogni parte ha una funzione e può essere impiegata. Questo è il concetto di una cucina colta, intelligente, rispettosa”.

Un esempio? Le foglie esterne dell’insalata, che spesso si scartano, possono diventare la base per una frittata di lattuga, un piatto povero ma ricco di sapore. Secondo il giornalista e autorevole critico gastronomico Luciano Pignataro, la cucina napoletana nasce proprio con il principio della sostenibilità. “La cucina napoletana e meridionale ha radici contadine, una cultura che da sempre riutilizza tutto per necessità e per intelligenza. Ogni ingrediente ha un valore, non solo per il suo costo, ma per il suo gusto. Oggi l’alta ristorazione riscopre questo concetto, che non è una moda ma un’eredità del passato che ci proietta nel futuro. Penso alla tradizione del riuso delle interiora, che oggi si sta perdendo, mentre nel Sud ha sempre avuto un valore fondamentale. Lo stesso vale per il pescato: un tempo si usava tutto, comprese le interiora dei pesci, mentre oggi si tende a buttare via una parte del loro potenziale gusto”.

Pignataro ricorda anche il movimento nato in Danimarca con la moda del recupero delle bucce di patate nei ristoranti di Copenhagen, ma sottolinea: “Nel Sud, questo è sempre stato naturale. La cucina povera, in realtà , è la più sostenibile di tutte”. Anche il maestro pasticcere Sal De Riso condivide questa visione, spiegando il suo metodo per ridurre lo spreco senza mai ricorrere a dolci anti riciclo. 
“Io non faccio dolci di recupero, – spiega all’AGI-  ma sto attento alle quantità e adopero tutto per evitare sprechi. Se durante le festività rimangono panettoni invenduti, non vengono buttati, ma donati alla Comunità di Sant’Egidio. Lo stesso vale per gli ingredienti in laboratorio: i succhi di frutta avanzati nelle lavorazioni, ad esempio, possono essere utilizzati per biscotti o creme”. 
Napoli ha sempre avuto una cucina profondamente sostenibile per natura, nata dalla capacità di trasformare ogni ingrediente in un piatto di valore. Non si tratta solo di utilizzare gli scarti ma di dare un senso a ogni parte del prodotto, come accade nei grandi classici della cucina partenopea.
Questa non è cucina di recupero ma cucina consapevole, quella che Esposito definisce “una cucina colta, che sa cosa fare degli ingredienti prima ancora di metterli nel piatto. Ed è questa la vera sfida della ristorazione contemporanea: trasformare la conoscenza in cultura del cibo, nel rispetto della qualità della sostenibilità.

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