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Dal commercio alle disuguaglianze: ecco i sei fattori che spingono verso la de-globalizzazione

Gen 28, 2019

MILANO – La de-globalizzazione (o, come l’ha chiamata uno scrittore olandese, slowbalization), è qui per rimanere. Non si tratta solo dei dossier contingenti, benché immani, chiamati Brexit e rivalità commerciali tra Usa e Cina. Anche se sparissero magicamente dal tavolo, “ci sono diverse altre forze che con tono crescente guidano la de-globalizzazione”, e inducono gli analisti della banca Nomura a “guardare con cautela al futuro prossimo”. E’ il contributo del colosso giapponese all’ampio dibattito sulla globalizzazione, cui ha dedicato la copertina l’ultimo numero dell’Economist, cercando di soppesare costi e opportunità del minor grado di interconnessione dell’economia mondiale, iniziato qualche anno fa e in corso di consolidamento.

Correggere le storture della globalizzazione

Se queste premesse si avvereranno, Nomura stima implicazioni di mercato negative come “l’aumento dei tassi reali di credito, il calo delle quotazioni azionarie di Wall Street e dei rendimenti dei T-bond decennali, un generalizzato aumento del costo del credito per le imprese”. Niente di cui rallegrarsi insomma: ma che forse potrebbe essere compensato se ripensare la globalizzazione portasse a correggerne i suoi eccessi, attraverso una maggiore presenza degli Stati e della politica per redistribuire reddito e risorse e mitigare le tensioni sociali che anche per colpa degli sviluppi dell’economia nell’ultimo trentennio oggi flagellano Stati uniti ed Europa.

“Il massimo della globalizzazione è probabilmente alle nostre spalle, ma una globalizazione parcellizzata e più densa nelle aree regionali, che rimetta in gioco i paesi esclusi e la ripartizione di ruolo di ‘fabbrica del mondo’, presa dalla Cina dopo il suo ingresso nel Wto, potrebbe perfino rivelarsi una soluzione più armonica – osserva Marco Mazzucchelli, advisor sui servizi finanziari per Europa, Medio oriente e Africa di Bain & company. – Anche l’Italia, uno dei pochi paesi che hanno conservato al loro interno la capacità produttiva e le competenze manifatturiere, potrebbe trarre beneficio da questa revisione dello stato delle cose: a patto che governo e classi dirigenti abbiano ben chiara l’importanza di rimanere un Paese aperto e responsabile”.

I sei fattori strutturali di de-globalizzazione

Nomura ha inquadrato sei “agenti rallentatori” della globalizzazione.

1) I flussi di capitale che sono investiti oltrefrontiera, dopo i picchi precedenti al crac Lehman Brothers, stanno diminuendo, come prova il coefficiente Feldstein-Horioka e gli investimenti globali delle quattro maggiori economie, che dal picco 2007 del 70% del loro Pil aggregato si sono più che dimezzati, in un quadro di volatilità crescente.

2) La pressione sui costi del lavoro riduce gli incentivi alle esternalizzazioni, che nell’ultimo ventennio avevano diffuso saperi e costumi. Ma ormai i costi della manodopera si stanno allineando al ribasso, specie nelle fasce a più modesto valore aggiunto: e in un ventennio l’incidenza del costo del lavoro – misurata come rapporto tra le mansioni più pregiate e quelle meno – si è più che dimezzata passando da 3,5 a 1,7.

3) Il protezionismo strisciante è tornato: non solo quello di dazi e tariffe, che fa titolo sui giornali, ma quello, più sottile e molto più rilevante nelle conseguenze economiche, dei costi non tariffari. Lo attestano le operazioni commerciali realizzate a soli scopi anti-dumping o compensativi, per reagire a pratiche giudicate sleali nei paesi membri del Wto quando esportano i loro beni: e che secondo Nomura sono più che quadruplicate nell’ultimo ventennio.

4) Le tariffe commerciali misurate in 55 paesi del Wto, per quanto in calo nell’ultimo decennio, hanno smesso di allinearsi e ci sono crescenti divergenze, con un 10% di paesi virtuosi del campione che ha limato i dazi dal 3,5% al 2,5% tra 2008 e 2017, mentre il decile più aggressivo li ha aumentati dal 12,6 al 12,8% nel periodo.

5) I dati del Digital adoption index (Dai) della Banca mondiale dimostrano che le tecnologie emergenti portano benefici sproporzionati ai singoli paesi, e superiori a quelli ad alto reddito.

6) L’impatto della Cina sull’economia mondiale, per quanto ancora grande, è declinante. Lo attesta un quindicennio di dati sul commercio cinese, che vede la diminuzione dell’export di merci “lavorate” (a maggiore valore aggiunto e che più pesano sul commercio mondiale), dal 55% al 35% delle esportazioni totali, a scapito di materie prime e semilavorati.

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