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Dal Brasile un «quasi melodramma» che arriva dritto al cuore

Ott 31, 2017

Un soggetto solido da cui partire. Un gruppo di protagonisti con la faccia giusta. Un utilizzo sapiente della fotografia e dalle musiche. Sono gli ingredienti principali della riuscita (The movie of my life) del brasiliano Selton Mello. Il 45enne attore e regista brasiliano sceglie un romanzo che gi nel titolo recava impresso il suo destino (Un padre da film di Antonio Skarmeta) e ne fa un intenso racconto di formazione. Sull’approdo alla vita adulta di un giovane professore di francese, appassionato di cinema e poesia, che deve fare i conti con l’assenza/presenza di un padre vitale, entusiasmante e ingombrante. Ne viene fuori un quasi-melodramma che stempera i picchi emotivi con l’ironia e che arriva contemporaneamente agli occhi e al cuore dello spettatore.

Una vicenda di respiro universale

Giunto al suo terzo film Mello si dimostra un autore intelligente. Sia perch compie un passo di lato nella recitazione, scegliendo per se stesso il ruolo minore di Paco (a cui per si deve il monologo esilarante sulle differenze tra un uomo e un maiale, ndr) e potendosi cos concentrare sulla direzione dell’intero cast. Sia perch decide di sfruttare a pieno le potenzialit della macchina cinema. Come testimoniano una colonna sonora di respiro internazionale e una fotografia che cambia toni e contrasti man mano che la vicenda si evolve. Una vicenda peraltro di respiro universale: siamo nel 1963 nel sud del Brasile e il giovane Tony Terranova (Johnny Massaro) decide di raccontare come un film la sua vita e soprattutto quella di suo padre Nicolas (francese come il suo interprete Vincent Cassel) che aveva deciso di abbandonare il figlio e la moglie Sofia (Ondina Clais) senza un motivo apparente.

O filme da minha vida riesce dove Cuernavaca fallisce

Per Tony ritrovare suo padre significher innanzitutto trovare se stesso. E dare finalmente una sistemazione a tutti quegli insegnamenti che aveva ricevuto da bambino. Uno di questi pu tornare utile anche a noi nel giudicare il risultato complessivo di O filme da minha vida. E cio che di un film e’ sbagliato soffermarsi solo sull’inizio e sulla fine. Mettendolo in pratica possiamo cos evitare di concentrarci sull’uso troppo insistito della voce off iniziale e sul finale eccessivamente consolatorio e concentrarci sulle emozioni complessive che i 113 minuti di proiezione riescono a smuovere. Arrivando a centrare il bersaglio che un’altra opera sudamericana, vista il giorno prima alla Festa del cinema di Roma aveva invece mancato. Stiamo parlando del messicano Cuernavaca di Alejandro Andrade Pease che nonostante lo stesso materiale di partenza (un figlio, stavolta bambino e orfano di madre, che deve fare i conti con un padre latitante) non riesce mai a toccare le stesse corde emotive. Finendo per pagare l’intenzione del suo autore di farne una metafora del Messico di oggi, diviso dai muri e schiacciato dai conflitti sociali. Una metafora rimasta soprattutto sulla carta.

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