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Dagli uccelli ai moscerini. Gli studi sulla magnetocezione sono l’essenza del metodo scientifico

Ago 11, 2023

Di tanto in tanto, appaiono pubblicati nella letteratura specializzata alcuni lavori il cui significato va ben oltre lo specifico argomento di cui si occupano, ed ha a che fare con il modo stesso in cui modernamente si intende la ricerca scientifica, lo status della conoscenza acquisita tramite quella e il valore dell’euristica e del
metodo scientifico nel produrla.

E’ questo il caso di un articolo appena pubblicato da Nature, il quale è di per sé stesso di interesse per quello che riguarda il suo specifico argomento, ma che costituisce anche a mio giudizio un esempio particolarmente eclatante di come può funzionare la comunità scientifica al meglio delle sue possibilità, quando applica il metodo suo proprio con determinazione e rigore.

Uno dei sensi più misteriosi, osservato in molti animali fra cui i più celebri sono diversi uccelli migratori, è la capacità di orientarsi utilizzando come bussola il debolissimo campo magnetico terrestre. Nonostante svariati decenni di studi, il meccanismo alla base di questa capacità è ancora non ben definito: esistono diverse ipotesi, fra cui quella attualmente favorita riposa sulla dinamica di spin delle coppie radical iche formate transientemente all’interno di alcune proteine speciali nella retina, chiamate criptocromi. Non potendo in questa sede entrare nei dettagli, basti al lettore sapere che si tratta proprio di uno di quei sin qui rari meccanismi che permettono ai sistemi biologici di sfruttare particolari fenomeni quantistici a proprio vantaggio, come si accennava nell’articolo di ieri

Ora, al di là del meccanismo sottostante, negli uccelli migratori in particolare la sensibilità al campo magnetico terrestre e la dipendenza di questo senso
dall’illuminazione della retina sono fatti accertati e solidamente stabiliti da molto tempo; tuttavia, il meccanismo molecolare dettagliato è rimasto elusivo e fondato su ipotesi come quella dei criptocromi, perché studiare a livello molecolare un meccanismo del genere richiede intervenire a quel livello, per esempio (ma non solo) attraverso mutagenesi sperimentale, cosa per diversi e ovvi motivi impossibile in animali come gli uccelli selvatici.

Per questo motivo, la comunità scientifica ha cercato tracce dello stesso meccanismo molecolare ipotizzato per gli uccelli, modulato dalla luce, anche in
animali molto più semplici da studiare e da manipolare; e quando nel moscerino della frutta, uno fra gli organismi che maggiormente ha contribuito alla nostra
attuale conoscenza molecolare della vita, sono stati identificati criptocromi analoghi a quelli degli uccelli, senza indugio ci si è messi a provare se anche in questo insetto fosse rilevabile una sensibilità a campi magnetici più o meno intensi, modulata dalla luce, come si era osservato negli uccelli.

Non meno di una quindicina di lavori hanno riportato e confermato questa capacità, fra cui due più influenti, pubblicati nel 2008 e nel 2014 proprio da Nature e da una rivista del lo stesso gruppo. Con un livello di significatività statistico molto elevato, nei campioni di qualche centinaio di mosche la capacità ricercata è risultata pienamente confermata: la porta alla comprensione molecolare della magnetocezione animale è risultata a questo punto aperta, perché del moscerino della frutta non solo abbiamo una mappa molecolare e cellulare dettagliatissima, ma anche perché su questo animale è possibile operare proprio quel tipo di interventi che servono ad evidenziare il ruolo di ogni possibile biomolecola nello spiegare una proprietà di interesse come quella sotto indagine.

Tuttavia, un gruppo internazionale di ricercatori (fra cui, e in prima fila, il nostro connazionale Marco Bassetto, presso l’Università di Oldenburg) ha voluto
confermare con un rigore ed un’accuratezza superiore i risultati del 2008 e del 2014, adottando una serie di precauzioni per essere certi contro ogni ragionevole dubbio della magnetocezione nei moscerini della frutta. Si sono fatti mandare i progetti dell’apparato sperimentale usato nel 2008, costruendone una replica fedele, e hanno ottenuto l’apparato originale usato nel 2014: la collaborazione fra gruppi di ricerca comincia infatti dallo scambio di apparati, metodi, protocolli, ed è alla base della replicazione, soprattutto in discipline biologiche, ove le variabili aleatorie e difficilmente controllabili in un esperimento sono moltissime.

In condizioni altamente controllate, con apparecchi collocati in una camera schermata elettromagneticamente all’nterno di un edificio non magnetico che
bloccava il rumore magnetico esterno di fondo, i ricercatori hanno ripetuto gli esperimenti del 2008, testando 984 gruppi mosche in 48 mesi, per un totale di 97.658 mosche. Lo studio del 2014 è stato replicato utilizzando quasi 11.000 mosche, anche in questo caso utilizzando un lungo periodo di tempo sia per mettere
a punto l’apparato sperimentale, sia per condurre gli esperimenti veri e propri. Non solo: in entrambi i casi, gli sperimentatori sono stati tenuti all’oscuro delle
informazioni circa il campo magnetico utilizzato, ovvero gli esperimenti sono stati condotti in cieco.

Ebbene, in entrambi i casi le mosche sono risultate incapaci di percepire il campo magnetico utilizzato, a dispetto di quanto inizialmente riportato nel 2008 e nel 2014. Inoltre, quando i ricercatori hanno riesaminato la statistica degli studi precedenti, e particolarmente le dimensioni del campione utilizzati nei due studi precedenti, hanno concluso che la maggior parte dei risultati originali erano probabilmente falsi positivi, indicando sensibilità magnetica dove in realtà non esisteva, a dispetto dell’alta significatività statistica riportata originariamente per i risultati, la quale, in assenza di una adeguata rappresentatività, come sappiamo è possibile per semplice fluttuazione stocastica.

Ora, al di là del significato importante per il settore specifico, questo articolo è innanzitutto uno di quelli che farebbero felici Popper: un rigorosissimo test, in
questo caso di tipo replicativo, che smentisce un’ipotesi scientifica testabile, relegandola fra quelle che, ad altissima probabilità, sono false.
Si noti bene:
entrambi i gruppi il cui lavoro è stato posto sotto esame hanno collaborato, fornendo tutte le informazioni e i materiali necessari, esattamente come idealmente
dovrebbe sempre avvenire. Che un tale tipo di studi sia pubblicato è ovviamente molto importante, ma purtroppo poco frequente nel mondo drogato degli impact factor e del bias verso la produzione di nuovi e clamorosi risultati scientifici positivi; è quindi anche particolarmente meritorio il comportamento della rivista, quella stessa che originariamente aveva pubblicato gli studi poi smentiti, e vi è la speranza che questo tipo di comportamenti, almeno sulle riviste ad alto impatto, possa divenire meno raro.

Vi è poi un punto di pari importanza, che riguarda lo standard di riproducibilità nelle ricerche di ambito biomedico e biologico, cioè in quelle l’oggetto di studio è per sua natura estremamente poco riproducibile, anche nelle condizioni migliori: qui abbiamo un esempio di come, nonostante questo, sia possibile investire risorse e ogni cura nell’ottenere il massimo del rigore possibile, in un modo che probabilmente non può del tutto eliminare fonti incontrollabili di rumore
sperimentale, ma può comunque fornire risposte di potere statistico talmente elevato, da contrastare anche 15 diversi lavori precedentemente pubblicati.
Ed è su questo particolare punto che vorrei concludere: per falsificare la scienza, non servono le chiacchiere e le petizioni di principio, ma altra scienza, di un livello e di un’accuratezza pari o migliore rispetto a quella usata per affermare una certa ipotesi.

Questa è l’essenza del metodo scientifico e questa è l’unica salvaguardia contro il prevalere di opinioni libere e la perdita di modelli del mondo almeno
provvisoriamente validi, in favore di altri del tutto incontrollati. Ben venga dunque la falsificazione rigorosa: la sua importanza va difesa e riaffermata, se vogliamo la scienza.

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