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Da Darwin alla “terapia adattiva”: buone notizie per combattere i tumori

Lug 8, 2022

L’evoluzione per selezione darwiniana non è un fenomeno interessante solamente dal punto di vista della storia e dell’ecologia degli organismi viventi, ma trova molte applicazioni mediche di rilievo. Un esempio che tutti abbiamo sotto gli occhi è quello che si sta svolgendo durante la pandemia, con l’emersione continua di nuove varianti di successo di SARS-CoV-2, in grado di aggirare la risposta immunitaria della nostra specie e di espandersi, a scapito anche delle varianti precedenti meno efficienti. Tuttavia, l’interpretazione darwiniana dei fenomeni in ambito medico si spinge ben oltre l’ecologia e la coevoluzione tra i parassiti e i loro ospiti, portando a nuovi approcci terapeutici potenzialmente più efficaci anche per condizioni ben diverse.

Un nuovo caso di applicazione molto interessante arriva da un recente lavoro di medicina evoluzionistica nell’ambito dei trattamenti oncologici, ed in particolare del tumore alla prostata – uno delle condizioni che procurano più morti e più anni di malattia ogni anno. Sebbene spesso inizialmente efficaci, quasi tutti i trattamenti farmacologici contro il cancro alla fine portano all’evoluzione di resistenza. A prescindere dallo specifico tipo di cancro, la resistenza è il prodotto della selezione di popolazioni di cellule cancerose con meccanismi in grado di rendere nulla l’azione farmacologica, da un lato, e di incrementare la proliferazione a sufficienza da diventare clinicamente significative dall’altro.

Ora, mentre la selezione di cellule resistenti al trattamento è inevitabile, la proliferazione delle popolazioni selezionate è governata da principi che sono sostanzialmente quelli eco-evolutivi classici, cioè darwiniani.

In particolare, è possibile dimostrare come le attuali strategie di trattamento, che applicano spesso la terapia alla dose massima tollerata per ritardare il più possibile la progressione tumorale, sono subottimali dal punto di vista dell’evoluzione darwiniana di tumori resistenti. Infatti, sebbene la risposta iniziale possa essere robusta, la terapia finisce per fallire perché appia una forza selettiva costante che favorisce ogni cellula resistente, mentre eradica tutte le cellule sensibili al trattamento. Questo percorso elimina di fatto ogni competizione fra le cellule sensibili al trattamento e quelle resistenti, liberando completamente l’ecospazio per queste ultime, che possono così proliferare indipendentemente dalla loro capacità di competere con il tumore iniziale.

Partendo da queste considerazioni, gli autori dello studio in questione hanno studiato l’efficacia di una forma alternativa di trattamento, la cosiddetta “terapia adattativa”. Considerando il costo metabolico insito nel mantenere l’apparato molecolare che al tumore è necessario per la resistenza ad un farmaco, in assenza di questo è stato dimostrato sperimentalmente su casi specifici di cancro che le cellule tumorali non sarebbero competitive con quelle prive di resistenza, le quali non sostengono quel costo e dunque hanno in generale un vantaggio proliferativo a parità di risorse, soprattutto nei microambienti tumorali con risorse limitate, come quelli in cui attecchiscono le metastasi ossee.

Di conseguenza, una terapia che somministri un farmaco per ridurre di una quantità prefissata il volume tumorale e i marcatori oncologici, mantenendo esplicitamente una popolazione significativa di cellule tumorali sensibili al trattamento, può poi essere interrotta, contando sul fatto che le cellule sensibili residue, alla sospensione della terapia, ricolonizzeranno lo spazio perduto senza consentire a quelle resistenti di prendere il sopravvento. A causa dei costi della resistenza che abbiamo visto, infatti, in assenza di pressioni esercitate dal farmaco, le cellule sensibili hanno un vantaggio e proliferano a spese delle cellule resistenti. Pertanto, quando il tumore ritorna al suo volume pretrattamento, le cellule sono in maggioranza ancora sensibili al trattamento, consentendo alla terapia iniziale di rimanere efficace.

 

L’importante è che la definizione del momento in cui è necessario interrompere la terapia in corso e quella in cui la si riprende siano definiti non sulla base di un intervallo fisso predeterminato, ma su precisi parametri che bilancino la massima riduzione tumorale possibile, senza che le cellule sensibili alla terapia siano del tutto scomparse; e proprio con questa logica, nel caso di una diffusissima terapia per il tumore della prostata (l’abiraterone), gli autori dello studio citato sono riusciti a dimostrare un consistentissimo beneficio della “terapia adattativa” illustrata, prolungando di molto la durata della sensibilità del tumore al farmaco utilizzato.

Allo stesso tempo, trattandosi di un primo studio esplorativo, è evidente che l’ottimizzazione e soprattutto la personalizzazione del protocollo utilizzato richiederanno ancora uno studio numeroso; tuttavia, mentre in questo periodo di pandemia siamo stati abituati a considerare Darwin il nemico contro cui competere, questo lavoro, e la medicina evoluzionistica in generale, ci mostrano come egli possa essere un nostro alleato, quando la comprensione dei meccanismi di base che egli illustrò può essere usata a nostro vantaggio.

Darwin fuori di noi, Darwin dentro di noi: non è possibile in nessun caso prescindere dalla grandiosa idea che in tanti, troppi continuano ancora a non tenere in debita considerazione.

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