Come mai le bufale, cioè storie che, contrariamente a ciò che per gli antichi era il mito, sono state più volte inoppugnabilmente smentite, resistono, fioriscono e aumentano la loro presa, nonostante a volte appaia incredibile anche solo pensare di potervi credere?
In realtà, la tendenza a credere nelle bufale può essere vista come il sottoprodotto di una serie di caratteristiche del nostro mondo cognitivo, ereditate da antenati per i quali tali caratteristiche erano vantaggiose evolutivamente parlando (nonostante oggi possa sembrare incredibile).
Per esempio, la spiccata capacità della nostra specie di cercare e scoprire correlazioni anche tenui in dati apparentemente caotici è quella che probabilmente consentiva di ottenere informazioni molto utili per la sopravvivenza in tempi in cui era più importante sospettare una correlazione fra eventi e reagire in maniera prudente che rischiare di perdere la vita; tuttavia, questa sviluppatissima capacità porta come costo il bias dell’apofenia, cioè la tendenza a vedere correlazioni anche dove non ve ne sono, invece di ragionare razionalmente ed agire in base a considerazioni statistiche robuste. L’apofenia e molti altri tratti dei nostri processi cognitivi costituiscono dei bias che diminuiscono le capacità razionali, ma salvarono la vita ai nostri antenati in tempi remoti; per questo tali bias sono così difficili da contrastare quando si voglia invece privilegiare l’azione razionale. Proprio per la loro capacità di inibire il pensiero razionale (e di superarlo in rapidità), tali tratti possono essere sfruttati per il proprio vantaggio in settori come il marketing o la politica o la comunicazione (quando cioè si tratti di far credere ad altri cose tali da favorire il nostro interesse) per convincere altri (o autoconvincersi) delle balle più incredibili, senza tema di essere smentiti da alcun insieme di fatti documentati e da alcuna analisi razionale.
Per comprendere tutto il peso di questo fenomeno, vale la pena di mostrare un esempio concreto.
I lettori si saranno accorti che, particolarmente in questo periodo in cui l’epidemia di Sars-CoV-2 è nel nostro paese molto meno pericolosa che in passato, vi è un continuo martellare di certi giornali e di molte pagine social sugli eventi di morte di persone giovani e in buona salute, tutti raccolti sotto il binomio generico e impreciso di “morti improvvise”.
I comunicatori che insistono su questo tema stanno sfruttando esattamente il meccanismo dell’apofenia: accostando una pristina vaccinazione ad una successiva morte “inspiegabile”, si rinforza l’idea (per la verità giù preconcetta in chi segue queste sciocchezze) che a causare queste disparatissime morti o, in mancanza, malori di sportivi e piloti d’aereo, siano i vaccini.
Introducendo una correlazione spuria, perché ottenuta attraverso selezione intenzionale degli eventi da correlare a partire da un insieme di dati in cui tale correlazione non esiste, e martellando ossessivamente con titoloni e parole forti, si ottiene l’associazione voluta, senza neppure la necessità di richiamare qualche breve elemento razionale; è sufficiente presentare un segnale e mostrarne la successione, vera o presunta, rispetto ad un evento, per stabilire il condizionamento apofenico, e così ricavarsi una comoda e redditizia posizione di “disvelatori del vero”.
Va notato inoltre un elemento in particolare: l’apofenia, proprio a causa del suo significato euristico protettivo per i nostri antenati, funziona particolarmente bene quando i “significati nascosti” o i “segni chiarificatori” che si crede di scorgere ricercando correlazioni immaginarie implicano una condizione di pericolo.
È cioè un fenomeno cognitivo particolarmente buono per il “mercato della paura”, ovvero per la propagazione di avversione e il rinforzo del timore nei confronti di qualcosa.
Possiamo accorgercene facilmente, anche al di fuori della ossessiva narrativa antivaccinista: il sistema adottato è infatti sempre lo stesso, che si tratti di demonizzare Ogm, glifosate, vaccini, energia nucleare, 5G o qualunque innovazione presa a bersaglio, invariabilmente assistiamo alla frenetica ricerca di correlazioni spurie, di segnali da porre in sequenza artificiosamente e senza nessun rispetto delle più elementari norme statistiche, pur di far immaginare al nostro io scimmiesco una immaginaria tigre dietro il fruscio di ogni cespuglio.
Intanto, però, il mondo in cui ci siamo forgiati evolutivamente è scomparso, e viviamo in un mondo estremamente complesso, veloce, intricato ed enormemente più ampio. Questo significa che un gran numero di euristiche come l’apofenia, scarsamente sensibili alla verità dei fatti e direttamente connesse alla nostra stessa fisiologia, che magari erano innocue o addirittura funzionavano bene per la maggior parte della nostra storia evolutiva, oggi possono essere e di fatto sono molto dannose.
Abbiamo di fronte a noi la sfida, e la possibile catastrofe, che origina nella modifica estrema del nostro pianeta dovuta al nostro stesso numero: è assolutamente indispensabile smettere di essere i componenti di una specie che raggiungeva le poche decine di migliaia di individui, e cominciare a divenire individui in grado di controllare e contenere la portata del nostro agire attraverso il pensiero razionale e scientifico, senza cader preda dei solleticatori di bias.