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«Così riparte la vita a Wuhan dopo il lockdown», il racconto dall’epicentro del coronavirus

Apr 10, 2020

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Cos’è?

È il codice di buona salute, dice che posso uscire perché non sono contagioso. È legato a un codice personale cinese, come fosse il codice fiscale ma più dettagliato. È integrato in app molto popolari qui come WeChat (una specie di WhatsApp ma con molte più funzioni, tra cui i pagamenti, ndr) e Alipay di Alibaba. Se io prendo la metropolitana, treno o aereo devo usare questo codice con tecnologia QR ai tornelli. Le autorità sanno che la sto prendendo e che percorso faccio. Se poi scoprono, sempre via app, che c’era un infetto sul mio vagone, il mio codice diventa rosso e per precauzione sto in casa 14 giorni in quarantena. Questo è l’ultimo passo. Prima, nel periodo di lockdown, venivamo chiamati a casa da una voce registrata che chiedeva come stavi e se qualcuno in casa aveva sintomi. Potevi anche fare delazioni: segnalare casi sospetti nel compound.

Al di là del tema della privacy e dei dati personali, anche solo come disponibilità tecnologica è difficile immaginare una cosa del genere in Europa.

Il coronavirus in Cina ha fornito una spinta a tecnologie come l’intelligenza artificiale che già erano avanzate. Noi è da 3 anni che non usciamo con il portafoglio e paghiamo via app. Anche i mendicanti non raccolgono più monete ma mostrano il qr code. Credo che soluzioni di tracciamento con uso di tecnologie siano inevitabili ma devono essere gestite dal governo, non da aziende private.

Torniamo alla ripresa delle vostre vite fuori da casa. Voi state uscendo?

Sì, siamo usciti con i due bambini di 6 e 8 anni e mia moglie. Non c’è molta gente in giro. Sono tutti molto cauti, anche più di quanto prevedano le restrizioni. Potremmo andare al parco o a passeggiare lungo il fiume ma per il momento preferiamo restare tra di noi. Sappiamo che il problema non è risolto. Passo davanti all’ospedale e vedo ancora addetti con la tuta bianca e tutte le protezioni. C’è un ingresso apposta per i potenziali infetti.

Come avete vissuto questi mesi?

Abbiamo cercato di prendere le cose positive. Prima di tutto non ci siamo ammalati. I racconti che ci arrivavano dagli ospedali erano drammatici, come alcuni che ho letto dall’Italia. Quando abbiamo realizzato che stavamo bene e ormai eravamo in casa da 14 giorni ci siamo detti: ok questa sarà la nostra vita per un po’. Possiamo insegnare qualcosa ai nostri figli, io gli insegno inglese e italiano. Certo non possono andare in palestra o andare a scuola di pianoforte. Cose che ci mancano.

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