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Coronavirus e peste: le analogie dalla bardatura dei medici all’autocertificazione per muoversi

Nov 27, 2020

intervista

Ora come allora. Una pandemia che ha molte analogie con quella di manzoniana memoria del Seicento

di Nicoletta Cottone

Quando c’era la peste: dai lazzaretti ai bollettini di sanità

Ora come allora. Una pandemia che ha molte analogie con quella di manzoniana memoria del Seicento

27 novembre 2020


5′ di lettura

Ora come allora. Conviviamo da mesi con il nuovo coronavirus arrivato da lontano e ora assistiamo alla seconda ondata che ha imposto nuove restrizioni. Una pandemia che ha molte analogie con la peste manzoniana del Seicento, dalla bardatura dei medici all’approccio alle cure, fino alle autocertificazioni necessaria per muoversi. Ne parliamo con la professoressa Simona Feci, docente di Storia del diritto del medievale e moderno all’Università di Palermo.

Una epidemia piomba nella vita di tutti i giorni che succede?

«Se pensiamo alle epidemie del passato, in particolare alle ondate di peste, dobbiamo sapere che queste ondate erano attese dalla popolazione, perché spesso erano presenti contemporaneamente in più luoghi, anche se ancora non erano arrivate nelle città poi interessate dall’epidemia. Si sa che esiste la peste in città e regni più o meno lontani. E quindi all’avvicinarsi del contagio si scatena una grande preoccupazione e una grande paura nella popolazione».

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Che armi si usano per combatterle?

«Le armi impiegate per combattere le epidemia di peste nel passato, nell’età moderna, consistono principalmente nel distanziamento. Quindi nell’isolare e controllare l’accesso alle città, prima che la peste arrivi nel territorio. Non è escluso che la peste arrivi anche attraverso imbarcazioni, come avviene a Palermo nel 1624, con persone che hanno falsi certificati di sanità. La peste arriva da fuori, dunque, attraverso navi, marinai e soldati. Arriva surrettiziamente. La prima cosa da fare, quindi, è il controllo dei confini, dei porti, delle merci e, progressivamente, l’isolamento per evitare che ci sia la diffusione del contagio. Isolamento che riguarda le città o porzioni del territorio urbano, come i rioni. A Roma nel 1656, per esempio, vengono isolate Trastevere e il ghetto. Oppure l’isolamento delle case dove ci sono dei malati e si sospetta che il resto degli abitanti di quella dimora abbiano contratto la peste».

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Quali sono i locali delle cure?

«I locali in cui vengono ricoverati i malati sono i famosi lazzaretti, costruiti, anche più di uno, nelle città a seconda delle dimensioni. Lazzaretti dove vengono portati, spesso a forza, i malati, quelli che si tirano fuori dalle abitazioni. Il problema è che i lazzaretti sono luoghi in cui il più delle volte si muore, talvolta si sopravvive, ma sono anche luoghi di trasmissione del contagio, di cui sono le prime vittime proprio i medici curanti e coloro che prestano servizio nei lazzaretti. Esistono poi dei lazzaretti dove si trascorre il periodo di quarantena, come avviene a Roma nel 1656, dove oltre al lazzaretto dell’Isola Tiberina ,c’è un secondo lazzaretto in cui si portano i malati guariti».

Come si svolgono le quarantene?

«Le quarantene si svolgono in modo drammatico nei lazzaretti, luogo di grande disperazione in cui i più attendono la morte. Sono affidate a figure di medici o a religiosi che gestiscono i lazzaretti e nelle varie città ci sono esprienze di ordini regolari che prestano la loro opera in questi luoghi, rischiando la propria vita. Lì si dettano anche le ultime volontà, quindi abbiamo una serie di testamenti, legati all’esperienza della morte imminente del paziente. Si guarisce o si conclude la propria vita, in modo solitario. Sono anche luoghi in cui bisogna avere un controllo formidabile. In alcuni lazzaretti vengono erette al centro le forche per indurre le persone a uniformarsi alle regole, a non uscire, a non fuggire. E regole che costringono a uniformarsi a quelli che sono i principi di separazione in vigore».

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