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Corleone, otto imprenditori denunciano il pizzo Arrestati 12 boss, anche il nipote di Provenzano

Set 27, 2016

Cade un’altra roccaforte dell’omertà mafiosa. A Corleone, paese simbolo di una lunga stagione di sangue e complicità, otto imprenditori ammettono di aver pagato il pizzo. Una scelta senza precedenti nella terra in cui hanno continuato a comandare gli eredi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, il primo è al carcere duro dal 1993, l’altro è morto in cella il 13 luglio scorso. Le parole di chi non vuole più sottostare alla legge del racket hanno fatto scattare un blitz: all’alba, i carabinieri del comando provinciale di Palermo hanno arrestato 12 persone, sono i nuovi boss di Corleone, questo dicono le indagini dei sostituti procuratori Sergio Demontis, Caterina Malagoli, Gaspare Spedale e dell’aggiunto Leo Agueci. Il nome più autorevole fra gli arrestati è quello di Carmelo Gariffo, il nipote prediletto di Provenzano. Al funerale dello zio capomafia, era in prima fila davanti all’urna con le ceneri del vecchio padrino. Un’immagine simbolo.

Gariffo conosce i segreti della vecchia mafia corleonese. Perché è stato più di un nipote prediletto, è stato a lungo il segretario di Bernardo Provenzano, è stato l’ultimo amministratore della rete dei pizzini distesa in lungo e in largo per la Sicilia. Lui era il codice “123”, Matteo Messina Denaro, ancora oggi latitante, era “Alessio”.

LE INTERCETTAZIONI

Gariffo era tornato in libertà da tre anni, i carabinieri del Gruppo di Monreale e della Compagnia di Corleone lo hanno intercettato mentre parlava di appalti ed estorsioni con il nuovo reggente del clan, Antonino Di Marco, un insospettabile dipendente comunale che organizzava i summit nel suo ufficio allo stadio di Corleone. “Basta uno, non c’è bisogno di cento”, diceva Gariffo, parlando della riorganizzazione della cosca. E ancora: “Uno perché non mi posso muovere, due perché prima devo trovare una persona adatta eventualmente a comandare… però ciò non vuol dire che noialtri le cose non le dobbiamo fare e dobbiamo cercare di vedere come risolvere la situazione. Non facciamo cose affrettate”. I carabinieri hanno intercettato tutti i dialoghi, poi hanno convocato gli imprenditori ricattati, che hanno ammesso di aver pagato.

LO SCIOGLIMENTO PER MAFIA

Gariffo pretendeva un posto in un cantiere comunale, il sindaco Lea Savona si era rivolta ai carabinieri. Ma non è bastato per evitare lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose, a metà agosto. Secondo il consiglio dei ministri i nuovi boss del paese controllavano già senza problemi alcuni gangli vitali della vita amministrativa cittadina. Dalla gestione dei rifiuti alla mensa scolastica, ai tributi soprattutto: la nuova società incaricata (neanche a dirlo, controllata dal parente di un boss) aveva fatto scendere la riscossione di oltre quaranta punti percentuali, dal 73 al 25 per cento. I boss e i loro familiari, ma anche alcuni politici locali, non pagavano tasse. Corleone zona franca.

Dice il colonnello Giuseppe De Riggi, il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo: “L’organizzazione mafiosa aveva alzato barriere che sembravano impenetrabili, puntava a controllare un intero territorio in modo esclusivo. Ma le indagini e le risposte positive arrivate dagli imprenditori hanno superato tutte le barriere, anche grazie ai giovani di Addiopizzo, che ci hanno accompagnato in questo percorso in provincia”.

GLI ARRESTATI

Gariffo poteva contare su un gruppo di fedelissimi: l’allevatore Bernardo Saporito gli faceva da autista; l’operaio forestale stagionale Vincenzo Coscino, da gregario. Il giudice delle indagini preliminari Fabrizio Anfuso ha firmato un’ordinanza di custodia cautelare anche per un altro forestale a contratto, Vito Biagio Filippello. Fra gli arrestati, il capo cantoniere Francesco Scianni, il figlio del capomafia Rosario Lo Bue, Leoluca, e Pietro Vaccaro, gli ultimi due sono allevatori; in cella pure gli omonimi Francesco Geraci, nipote e figlio di un capomafia deceduto, sono imprenditori agricoli. Hanno ricevuto un’ordinanza in carcere per le estorsioni Antonino Di Marco, Vincenzo Pellitteri e Pietro Masaracchia, boss già arrestati qualche mese fa; Masaracchia era stato intercettato mentre parlava di

un progetto di attentato contro il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Libertà vigilata, invece, per due proprietari terrieri: Gaspare e Pietro Gebbia, padre e figlio, si erano rivolti al clan per uccidere un parente, che ritenevano di troppo nella divisione di un’eredità.

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