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Come sta l’Italia del Jobs Act: la pagella al lavoro

Gen 11, 2017

MILANO – Il Jobs act si prepara a festeggiare i due anni di vita con un bilancio in chiaroscuro e con la spada di Damocle di un tagliando delicatissimo: quello del voto popolare, chiesto dalla Cgil con due quesiti referendari (che puntano su articolo 18, tutele crescenti e voucher, in aggiunta al terzo sugli appalti) e in attesa del responso sull’ammissibilità da parte della Corte costituzionale. I risultati provvisori sul campo della riforma introdotta dal governo Renzi – servirà tempo, urne permettendo, per valutarne appieno gli effetti strutturali – raccontano una realtà a due facce: a inizio 2015, quando è partita la decontribuzione per le nuove assunzioni stabili, il tasso di occupazione era al 55,9 per cento e quello di senza lavoro al 12,3 per cento. Oggi – come hanno detto l’altro ieri i dati Istat – gli italiani che lavorano sono saliti al 57,3 e quelli senza un impiego sono calati all’11,9 per cento. In tutto il Belpaese ha guadagnato 417mila occupati. Qualcosa si è mosso nella giusta direzione, verrebbe da dire a una prima lettura, grazie anche alla timida ripresa dell’economia. Ma il bilancio del Jobs act è in realtà un cocktail di luci e di ombre: a novembre 2016 – ed è una buona notizia – c’era 409mila contratti da tempo indeterminato in più rispetto a inizio 2015. Peccato che i più giovani non ne abbiano beneficiato. La frattura generazionale anzi, complice le rigidità della legge Fornero che ha allungato l’età pensionabile, si è allargata: in 23 mesi il numero di ultracinquantenni al lavoro in Italia è cresciuto di 690mila unità. I nuovi posti per i ragazzi tra i 14 e i 25 sono stati invece solo 36mila. Oltre 500mila nostri concittadini, e pure qui c’è da festeggiare, si sono rimessi in pista a cercare un impiego. Ma nello stesso tempo è decollato l’uso (l’abuso, dicono in molti) dei voucher, più che raddoppiati a quota 121 milioni nei primi 10 mesi del 2016. E, altra nota stonata, sono balzati del 32% i licenziamenti, facilitati – dicono i critici – dal depotenziamento dell’articolo 18. Ecco in dettaglio cosa e come è cambiato sul mercato del lavoro in Italia nell’era del Jobs act.

* Fonte Inps, Osservatorio sul precariato. Negli altri casi, fonte Istat

° Dal 1° gennaio 2015 sono entrati in vigore gli sgravi contributivi (fino a 8.060 euro per tre anni), ridotti al 40% per il 2016. Il Jobs act è entrato in vigore il 7 marzo 2015

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SGRAVI e STABILI. La possibilità di assumere risparmiando oltre 8mila euro di contributi ha fatto correre le aziende ai “saldi” dei lavoratori stabili nel 2015, chiuso con attivazioni in crescita del 56% sul 2014 (Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro su dati Inps, relativi ai flussi di contratti). Nel dicembre di quell’anno, prima che gli sgravi calassero al 40%, si è visto uno storico sorpasso delle attivazioni stabili su quelle determinate. L’ultima foto dell’Istat (che conta le “teste”) ritrae 14,9 milioni di dipendenti permanenti (novembre scorso), in netta crescita dai 14,5 milioni del marzo 2015, quando è partito il Jobs Act. Ma dietro questi numeri positivi si celano due debolezze. Dice di nuovo la Fondazione, che attinge a più fonti per un quadro più completo: se si considerano le trasformazioni emerge che su cento contratti a tempo indeterminato del 2015, solo il 9,5% può essere classificato a pieno titolo come nuova occupazione. Sono lavoratori che non risultano mai registrati negli archivi Inps come autonomi o professionisti, né sono mai stati oggetto di comunicazioni obbligatorie (avviati, cessati, prorogati, trasformati) dal 2009. La “de-precarizzazione” è certo bene accetta, ma rischia poi di affievolirsi con il venir meno degli sgravi e una mancata crescita economica sostenuta: negli ultimi mesi i tempi determinati sono tornati a crescere a ritmo ben maggiore, mentre si è spento il boom di contratti stabili con l’affievolirsi della convenienza economica dell’assunzione.

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DILEMMA LICENZIAMENTI. Tra gennaio e ottobre 2016 (ultimi dati Inps disponibili), le cessazioni di contratti stabili sono state 506mila, più di quanto visto nei due anni precedenti. Sensibile il rialzo dei licenziamenti disciplinari, che molti hanno messo in correlazione con il depotenziamento delle tutele dell’articolo 18: per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, il licenziamento illegittimo economico e disciplinare prevede solo tutela indennitaria e non reintegra. Analizzando il primo anno di riforma, i Consulenti del lavoro hanno calcolato la “sopravvivenza” dei contratti indeterminati a tutele crescenti: dopo un anno ne risulta cessato il 38,4%, contro il 47,4% nella media del triennio 2011-2013. L’incidenza dei licenziamenti è scesa dunque di 9 punti. Ma, è bene ricordare, sono fasi economiche ben diverse: in un caso un Pil crescente, seppur di poco, nell’altro sabbie mobili. Che l’equazione Jobs Act=licenziamenti fosse destituita di fondamento era già stato notato qualche mese fa da Bruno Anastasia su lavoce.info, anticipando una obiezione espressa anche da Tito Boeri. Secondo questa impostazione, criticata da Susanna Camusso, la crescita relativa dei licenziamenti è piuttosto da mettere in relazione con l’introduzione delle dimissioni on line. Queste hanno determinato un “effetto di sostituzione”, con due possibili spiegazioni. O l’emersione di veri licenziamenti; oppure la scelta per la soluzione burocraticamente più agile per interrompere il rapporto di lavoro (vero soprattutto per i lavoratori stranieri).

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TUTTO OK PER GLI OVER 50. I lavoratori ultra-cinquantenni sono quelli che escono meglio dai primi due anni dell’era Jobs Act. La statistica – come ovvio – è un po’ distorta dall’effetto della Legge Fornero, che ha alzato l’età pensionabile. I numeri però sono lo stesso molto significativi: da gennaio 2015 a novembre 2016 gli occupati over 50 sono cresciuti di 690mila unità. Come dire che ogni giorno si sono aggiunti quasi mille posti. La riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, in questo caso, ha avuto effetti marginali, visto che il trend è una fotocopia di quello del 2013-2014, quando in due anni i lavoratori con più di 50 anni erano cresciuti di 721mila unità. Il tasso di disoccupazione per questa fascia d’età mette l’Italia quasi al livello dell’eccellenza tedesca. A novembre scorso eravamo al 5,6%, il minimo dal 2012, mezzo punto in meno di gennaio 2015.

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ASSUNZIONI AL PALO PER I GIOVANI. L’effetto Jobs Act è quasi nullo per i ragazzi tra i 15 e i 24 anni. Da gennaio 2015 a novembre 2016 gli occupati in questa fascia d’età sono cresciuti di sole 36 mila unità. E nel 2016, con la riduzione degli sgravi, i nuovi posti sono stati solo 5mila. Si tratta, va detto, di un’inversione di tendenza, visto che dal 2004 il saldo annuale per gli under 24 era stato sempre negativo e il tasso di disoccupazione è sceso in due anni dal 40,9% al 39,4%. Anche l’Osservatorio dei Consulenti del lavoro certifica che proprio i più giovani (oltre che donne e laureati) sono le figure che hanno beneficiato maggiormente dell’aumento delle assunzioni stabili. Negli ultimi mesi, però, il mercato del lavoro giovanile ha rimesso la retromarcia. Ad aprile il numero degli occupati in questa fascia d’età era salito per la prima volta dal 2013 oltre il milione di persone. Da allora però sono stati bruciati 38mila posti. Le cose non vanno bene nemmeno per i 25-34enni: il 2015 la disoccupazione per loro è scesa dal 18,4% al 17,2%. A novembre l’indice era già risalito al 18,9%, e dall’avvio del Jobs Act sono stati bruciati oltre 130mila posti.

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PIU’ ITALIANI VERSO IL LAVORO. I primi due anni (o quasi) del Jobs Act vanno in archivio (ed è un vanto per i sostenitori della riforma) con un netto calo della popolazione inattiva, quella cioè che non cerca lavoro. Il valore complessivo è calato tra gennaio 2015 a novembre 2016 di 613mila persone. Il tasso di occupazione degli italiani è salito così dal 55,9% al 57,3%, magra soddisfazione visto che la media europea viaggia attorno al 70%. Il numero di persone in cerca di un posto è cresciuto uniformemente sia per genere che per fasce di età, segnala l’Istat. Un segnale positivo che rischia – in assenza di una ripresa economica più sostenuta – di trasformarsi in un boomerang statistico: se i nuovi arrivi sul fronte della ricerca del lavoro non troveranno un’occupazione, si trasformeranno in tempi stretti in disoccupati.

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IL BOOM DEI VOUCHER. Il secondo quesito referendario vuole abrogare i buoni lavoro che furono pensati (anno 2003) per il settore dell’agricoltura e poi di fatto liberalizzati a molte altre categorie. Da strumento di emersione del nero, sono diventati un grimaldello per eludere aggravi previdenziali e contrattuali. Il loro uso è decollato: 121 milioni di titoli nel gennaio-ottobre 2016, dai 54 di due anni prima. Secondo la Uil, il 2016 si è chiuso sopra 145 milioni. Nonostante i tentativi di rendere più trasparente il loro utilizzo, il governo – spinto da tutte le parti – ha aperto a nuove revisioni. “Non sono il virus che semina lavoro nero, ma bisogna correggerne gli abusi”, dice Gentiloni. “Sono come i pizzini, la soluzione è abolirli”, sostiene Camusso. A relativizzare il problema ha provato la prima pubblicazione congiunta Ministero-Inps-Inail-Istat: sarà anche una piaga, ma il fenomeno dei buoni per le prestazioni accessorie è limitato al corrispondente di 47mila lavoratori annui full time. Con i ticket da 7,5 euro netti (10 lordi) si paga solo lo 0,23% del costo del lavoro in Italia e la metà dei lavoratori che li incassano si ferma a 217,5 euro all’anno.

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LO SGUARDO DELLE AZIENDE. Il primo quesito referendario, che vuole riportare le lancette dell’articolo 18 quasi alla versione originaria, è quello più temuto dalle banche d’affari, che possono esser utilizzate come la lente di osservazione più vicina alla sensibilità di imprese e finanza. Barclays parla di un rischio “estremamente negativo” perché l’aver disinnescato l’articolo 18 ha “spinto la creazione di posti di lavoro e incrementato la produttività”. Le nuove tutele in caso di licenziamento (basate di fatto sull’indennizzo) sono, secondo la banca d’affari, apprezzabili perché le aziende sanno esattamente quanto può costare loro separarsi da un lavoratore, senza attendere il potere discrezionale di un tribunale. Nell’urna, se referendum sarà, andrà una norma che per Barclays riduce il dualismo tra garantiti e non e da ultimo una spia di quanto l’Italia voglia cambiare in chiave riformista. Significativo, nel giudizio più in generale sulle recenti politiche del governo verso il lavoro, vedere come Hsbc ritenga economicamente più importante questa consultazione di quella costituzionale del 4 dicembre. La banca internazionale ricorda che l’Ocse accredita il Jobs Act di un effetto benefico sul Pil di 0,6 punti percentuali in un quinquennio. Ma riconosce altresì come le aziende stesse leghino i due terzi delle nuove assunzioni effettuate ai risparmi contributivi. Una droga ormai esaurita, salvo per alcuni casi limitati.

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