Contrariamente a quanto si possa pensare, nella realizzazione di un’automobile il processo che richiede maggiore fantasia non è quello del disegno della carrozzeria. Ai designer, infatti, sono imposti moltissimi limiti da tenere in conto: le dimensioni non possono eccedere certe misure, i materiali metallici non possono essere modellati a piacimento, all’interno della scocca devono poter essere installate agevolmente le varie parti meccaniche ed elettriche.
Più di recente, a dettare le forme delle automobili si sono poi imposti limiti di sicurezza, come paraurti, calandre e cofani che devono innanzitutto essere collassabili per assorbire le forze generate in caso di impatto, che devono essere sufficientemente morbide e prive di sporgenze per minimizzare i danni da urto con i pedoni e, non da ultimo, sufficientemente aerodinamiche per ottenere i migliori consumi e prestazioni.
Quello che ancora non è imbrigliato dai paletti imposti dai tecnici è la scelta del nome con cui battezzare un’automobile. Agli albori della motorizzazione non ci si badava più di tanto. Il nome scelto per un modello di automobile spesso coincideva con quello scelto nell’ufficio dell’ingegnere incaricato di progettarla.
Poi, intorno alla metà del ‘900, arrivò il boom dei media di massa – prima la stampa, poi la radio e infine la TV – e l’affermazione della pubblicità, che diventò un vero e proprio mestiere. Si dovette dunque far lavorare la fantasia perché il nome di una vettura, al pari di quello di un qualsiasi altro prodotto, potesse rimanere impresso nella mente dei consumatori e allo stesso tempo sintetizzare le qualità di un’automobile.
A partire dagli anni ’70 le sigle alfanumeriche rimangono in uso solo tra pochi costruttori, in particolare tra quelli che ci tengono a mantenere un certo rigore per sottolineare la loro attenzione rivolta alla tecnica di costruzione. Come Audi per esempio, che dalla metà degli anni ’90 alla “A” (e successivamente alla “Q”, alla “S” e ad “RS”) accosta un numero per indicare la categoria di appartenenza. Il tempo ha consolidato questa nomenclatura, ormai cara ai cultori del brand.
Un esempio lampante è Lamborghini: la prima vettura della Casa di Sant’Agata Bolognese fu nel 1964 la 350 GT, sigla che indica chiaramente che si tratta di una “Gran Turismo” con motore da 3.5 litri. Poi arrivò la Miura, che inaugurò la fortunata tradizione di battezzare ogni auto con nomi derivanti dalla tauromachia. Oppure si può pensare a Porsche, che ha mantenuto lo storico e insostituibile 911, ma pian piano ha abbracciato scelte più accattivanti come Boxster, Cayman, Cayenne, Macan e Panamera.
Il processo di definizione di un nome non è però così semplice: nonostante si tratti di una sola parola bisogna fare i conti con eventuali brevetti già depositati da altre aziende, oppure, visto che l’automobile è un prodotto globale, del significato o del suono in altre lingue. Spesso questo processo segue strade inimmaginabili.
Come quella percorsa da Skoda per la definizione del nome dei suoi nuovi SUV, spingendosi fino ai limiti del globo. Dopo aver chiamato Kodiaq il primo SUV del nuovo corso in omaggio agli orsi Kodiak che abitano l’omonima isola dell’Alaska, la Casa di Mladà Boleslav ha fatto ricorso ai suoi abitanti di definire il nome del nuovo modello. La scelta è caduta su un termine nell’antica lingua Alutiiq che parlavano gli antenati dei cittadini di Kodiak, una lingua che stava per estinguersi ma che oggi rivive grazie all’enorme eredità dei pochi anziani che sono riusciti a tramandarla.
Nasce così, dalla fusione tra il moderno e l’ancestrale un nome, quello del nuovo Skoda Karoq, che deriva dalla combinazione dei termini Alutiiq “KAA’RAQ”, ovvero “auto”, e “RUQ”, cioè “freccia”. Che non a caso è l’elemento principale dello storico simbolo della Casa di Mladà Boleslav.
Lunga 4.382 mm, alta 1.605 mm e larga 1.841 mm, Karoq sarà in vendita a partire da fine 2017. Consumo di carburante urbano/extraurbano/combinato 6,8/5,0/5,6 (l/100 km). Emissione massima di biossido di carbonio (CO2): 131 (g/km).