• 22 Novembre 2024 0:28

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Come affrontare l’inquinamento da nanoplastiche

Ott 4, 2024

L’inquinamento da plastica è riconosciuto come una delle emergenze ambientali più pressanti a livello globale. Negli ultimi anni, l’attenzione della comunità scientifica si è spostata dalle macroplastiche visibili a occhio nudo alle microplastiche e, in modo crescente, alle nanoplastiche. Queste ultime sono particelle di plastica con dimensioni inferiori a 1 micrometro, spesso invisibili e potenzialmente più pericolose a causa della loro capacità di penetrare nelle cellule degli organismi viventi. Studi recenti hanno evidenziato la presenza di nanoplastiche in diversi ambienti, inclusi oceani, fiumi, suoli e persino nell’aria. Ricercatori hanno rilevato queste particelle in campioni di acqua potabile e alimenti, indicando una potenziale esposizione umana attraverso l’ingestione e l’inalazione. Dalle indagini sulla diffusione ambientale, si è passati ben presto a constatare come micro e nanoplastiche permiano ormai persino i nostri stessi corpi e tessuti.

Sulla base di questi dati, l’Agenzia Europea dell’Ambiente ha sottolineato l’urgenza di approfondire la ricerca su questo fenomeno emergente, evidenziando le possibili implicazioni per la salute umana e l’ecosistema. Le nanoplastiche possono infatti causare stress ossidativo, infiammazione e alterazioni del sistema immunitario, mentre negli ecosistemi possono interferire con le catene alimentari e ridurre la biodiversità.

Ora, se vogliamo davvero affrontare questo tipo di problemi, tipicamente l’abbattimento della produzione del corrispondente inquinante – in questo caso la plastica – è tanto necessario quanto insufficiente, anche se fosse totale.

La quantità di plastica ambientale, e soprattutto del corrispondente particolato micrometrico e nanometrico, è tale che ormai è necessario non solo impedirne la formazione, ma anche individuare mezzi per la sua rimozione, perché altrimenti la quantità già in ambiente eserciterà comunque i suoi effetti nefasti.

Per questo motivo, sono particolarmente interessanti due studi appena pubblicati.

Il primo ci racconta una storia affascinante su come la natura stessa, attraverso i batteri, possa contribuire a risolvere il problema. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che il batterio Comamonas testosteroni KF-1, presente nelle acque reflue, ha una sorprendente abilità: può degradare il polietilene tereftalato, meglio conosciuto come PET, il materiale utilizzato nelle bottiglie e negli imballaggi di plastica, fra le principali fonti di micro e nanoplastiche.

Comamonas testosteroni KF-1 è un batterio molto versatile, spesso presente negli ambienti urbani e nelle acque reflue, dove riesce a utilizzare un’ampia gamma di composti organici come fonte di nutrimento. I ricercatori hanno scoperto che questo batterio è in grado di aderire alla superficie dei frammenti di PET e di iniziare a degradarli grazie a un enzima chiamato idrolasi PET. Questo enzima funziona come una sorta di “forbice chimica”, spezzando i legami del polimero del PET e trasformandolo in composti più semplici e bioassimilabili, come il tereftalato, che il batterio può usare come nutriente. Il processo diventa ancora più efficace se si aggiunge acetato, una sostanza comunemente presente nelle acque reflue, che aiuta i batteri a crescere più velocemente e a degradare il PET in maniera più efficiente. La possibilità di ridurre la formazione di nanoplastiche utilizzando Comamonas deriva dal fatto che in sua presenza il PET, invece di frammentarsi in particelle sempre più piccole che finiscono inevitabilmente negli ecosistemi, viene convertito direttamente in composti utilizzabili dai batteri per la crescita. Grazie a questo batterio, possiamo immaginare un futuro in cui la plastica non è solo un rifiuto persistente, ma diventa parte di un ciclo naturale, contribuendo alla sostenibilità e al recupero ambientale.

Il secondo studio, condotto in maniera del tutto indipendente dal primo, ha dimostrato un’ulteriore possibilità. Invece di sfruttare batteri naturali – che possono avere difficoltà in determinati ambienti di utilizzo – è possibile ingegnerizzare batteri con le caratteristiche giuste per stare nell’ambiente che si intende bonificare (poniamo, il mare).

I ricercatori in quetso caso hanno prelevato batteri da un impianto di trattamento delle acque e li hanno geneticamente modificati per esprimere un enzima costruito ad-hoc chiamato FAST-PETase, capace di degradare il PET. Il processo utilizzato per modificare i batteri è noto come “coniugazione” ed è stato eseguito tramite un plasmide, un piccolo pezzo di DNA circolare, che può essere trasferito tra diversi batteri. Questa tecnica ha permesso di far esprimere l’enzima non solo nella comune Escherichia coli, il batterio inizialmente usato come “donatore”, ma anche in altri batteri presenti nelle acque reflue.

La cosa straordinaria è che questi batteri modificati sono riusciti a degradare circa il 40% di un film di PET commerciale in soli quattro giorni, a una temperatura di 50°C. Hanno anche mostrato un’azione parziale nel degradare PET proveniente da prodotti di consumo reale, come i tappi di caffè. Questo risultato è promettente perché suggerisce che i batteri modificati potrebbero essere utilizzati direttamente nelle acque reflue per ridurre la quantità di micro e nanoplastiche, evitando la necessità di purificare enzimi per applicazioni su larga scala.

L’idea è che in futuro queste tecniche possano essere ulteriormente perfezionate per abbattere diversi tipi di plastica in vari contesti, come gli impianti di trattamento delle acque e persino nell’ambiente naturale.

Ovviamente gli sviluppi qui descritti sono ancora in una fase preliminare, ma dimostrano il potenziale delle soluzioni biotecnologiche per ridurre l’inquinamento da plastica. Se sapremo cogliere questo potenziale, invece di avere paura di ogni innovazione, forse riusciremo a porre rimedio ai guai che abbiamo già fatto.

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