AGI – “Vossìa parla, perchè ho dichiarato il fatto della punciuta. Si ricordi che vossìa e don Pippino Alagna eravate presenti”: nel “Processo verbale di denuncia di 175 individui responsabili di associazione a delinquere e altri reati scoperti nell’Agro palermitano”, da cui scaturisce nel 1938 il maxi processo Adragna+191 contro le cosche di Palermo, il confronto tra Salvatore Cracolici, detto Funciazza, capo famiglia della borgata di Tommaso Natale, che aveva iniziato a collaborare con gli investigatori, e Vito Graziano, “elemento pericoloso ed astuto più di una vecchia volpe”, è durissimo e riporta alla memoria il ‘nostro’ maxiprocesso, quello che dal 1986 vide Tommaso Buscetta sfidare i boss che, uccidendo uno dopo l’altro i suoi parenti, gli avevano fatto attorno terra bruciata.
Il ruolo dei collaboratori di giustizia
“Cracolici è quello che gli storici chiamano un ‘proto-pentito’, con uno status che nel verbale rappresenta una novità assoluta rispetto al passato”, spiega all’AGI Costantino Visconti, penalista e direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, curatore con Nino Blando, storico, di un volume pubblicato da Franco Angeli che fa il punto di storici e giuristi sul ‘Contrasto alla mafia siciliana dal secondo Ottocento a oggi’.
“Per i giuristi – sostiene – esiste l’estrema necessità di non isolare le analisi al dato giuridico-processuale, della giustizia penale in concreto, ma di calarlo nel contesto politico culturale in cui si sviluppa. Nel caso specifico, dell’antimafia fascista, non riusciremmo a capire nulla se per un verso non avessimo il quadrante fornito dagli storici e dall’altro gli oggetti fino ad ora semi-sconosciuti da studiare. Si tratta di non limitarsi alle scarne notizie del repertorio giurisprudenziale e invece andare in archivio e tirar fuori vecchi processi, e da lì attraversare i confini del mero dato giuridico”.
L’arrivo di Cesare Mori
A cento anni dall’arrivo di Cesare Mori in Sicilia, il ‘prefetto di ferro’ che dall’ottobre del 1925 mise a ferro e fuoco interi paesini nell’isola, si può trarre un bilancio e qualche lezione sul rapporto tra repressione, diritti e lotta efficace alla mafia. Il processo del 1938 alla mafia dell’agro palermitano fornisce un buon banco di prova: “E’ un processo di cui si sapeva poco – prosegue Visconti – ma grazie ai colleghi che hanno partecipato alla stesura del libro e in particolare alla storica contemporaneista Manoela Patti, adesso si offre nitidamente all’analisi”.
Le due fasi della repressione fascista
La repressione di epoca fascista ebbe due fasi: la prima dal ’25 al ’29 con il prefetto Mori, e conseguenti processi che coinvolsero complessivamente quasi 14.000 persone nella Sicilia occidentale, un dato straordinario. La mafia venne dichiarata dal Duce sconfitta. Una seconda fase, che appare poco sui giornali dell’epoca poiché non bisognava contraddire la dichiarazione politica di vittoria sulla mafia, indica che gli apparati di polizia si rendono conto che gran parte dei mafiosi condannati è di nuovo in circolazione. Molti erano usciti dal carcere usufruendo dell’amnistia del 1932, nel decennale della marcia su Roma; altri avevano comunque ricevuto condanne a pene basse, poiché il reato associativo del codice ottocentesco Zanardelli così le prevedeva. La reazione dello Stato fascista è duplice: da un lato il confino di polizia, cinque anni rinnovabili in qualche isola insieme agli oppositori politici del regime; l’altra leva è rappresentata dai processi ordinari, che vengono messi in piedi senza clamore, in modo il meno possibile appariscente.
La nascita della Dia e il contrasto alla mafia
Il regime, d’altro canto “capisce subito che il problema esiste”, e già nel 1933 mette in piedi l’Ispettorato regionale di polizia, una sorta di DIA, guidato da Giuseppe Gueli, un allievo di Mori, con diversi nuclei che operano indisturbati in tutta la Sicilia occidentale.
Il processo Adagna e l’associazione mafiosa
Gueli “usa la leva sia del confino sia quella dei processi, in particolare quando si ha notizia di forme strutturate di ricostituzione delle cosche. Uno di questi processi è, appunto, ‘Adragna+191’, che riguarda cosche storiche come quella della borgata Tommaso Natale”. La ‘Dia’ di Gueli ricostruisce, si legge nel verbale, il “vincolo associativo, soggettivo e criminoso, i rapporti di dipendenza gerarchica in seno all’organizzazione e le relazioni fra gruppi e gruppi e famiglie e famiglie, con la netta divisione dei gregari dell’una e dell’altra fazione di mafia contrastanti per il predominio del campo”.
Il percorso giuridico e il codice Rocco
Nel processo – sottolinea Visconti all’AGI – viene contestato per la prima volta il reato associativo ‘comune’ così come definito dal codice Rocco appena introdotto nel ’30. “Cosa è interessante per noi, oggi? Non è vero che la mancanza del reato di associazione mafiosa, così come definito nel 1982 con il 416 bis, è una delle ragioni della inanità della giustizia penale nei confronti della mafia dalla Repubblica in poi”, risponde il giurista. “Quando lo Stato decide di contrastare la mafia, e il fascismo piaccia o no ebbe questa determinazione severa senza condizionamenti – prosegue Visconti -, gli strumenti per colpire si trovano: investigazione professionale, coordinamento interforze, maxi processi e valorizzazione delle collaborazioni di giustizia, tutti strumenti che ritroveremo anni dopo”.
La legge Rognoni-La Torre e il 416 bis
Perché, allora, è importante il 1982, quando viene introdotto il 416 bis? “Il 416 bis è un manifesto ‘politico’, di grande rilevanza simbolica. Con la legge Rognoni-La Torre, lo Stato afferma finalmente che la mafia è punibile e va perseguita, sia pure a certe condizioni”.
La presentazione del volume
Il volume sarà presentato sabato 29 marzo all’Università di Palermo dai curatori, da Giovanni Fiandaca, che ne ha fatto la prefazione, dal procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, e dal giornalista Riccardo Arena.