La disinformazione non è un incidente storico né una deviazione patologica di sistemi comunicativi altrimenti “sani”. È una proprietà emergente dei sistemi evolutivi che fanno uso dell’informazione per coordinare il comportamento. Appare ogni volta che un organismo non risponde direttamente allo stato del mondo, ma a segnali che ne sono una rappresentazione compressa, mediata e spesso socialmente trasmessa. In questo senso, la disinformazione è antica quanto la comunicazione stessa, ed è inseparabile dall’apprendimento sociale, cioè da uno dei più potenti acceleratori dell’adattamento biologico.
Il punto di partenza corretto è evoluzionistico. I segnali non evolvono per descrivere il mondo con accuratezza epistemica, ma per modificare il comportamento altrui in modo da produrre un vantaggio netto per chi segnala o per il sistema di interazioni in cui il segnale è inserito. Questo vale tanto per i segnali interspecifici quanto per quelli intraspecifici. Un segnale è un tratto fenotipico, soggetto a selezione, vincolato da costi, benefici, rumore e possibilità di verifica. In un quadro del genere, la corrispondenza fra segnale e realtà non è un valore assoluto, ma una variabile contingente: viene mantenuta solo finché conviene, e viene persa non appena il sistema di incentivi cambia.
Un lavoro recentemente pubblicato su una delle riviste della Royal Society è rilevante perché assume fino in fondo questa conseguenza e prova a costruire una vera e propria storia naturale della misinformation. La disinformazione non viene trattata come una deviazione morale o come un fallimento cognitivo, ma come un esito prevedibile di qualunque sistema biologico che faccia affidamento sull’informazione socialmente trasmessa. Non si tratta di estendere meccanicamente il problema umano al mondo animale, ma di riconoscere che i meccanismi che rendono l’informazione socialmente utile sono gli stessi che ne rendono inevitabile la distorsione.
Il passaggio concettuale decisivo è la separazione netta tra falsità dell’informazione e intenzionalità. In natura esiste l’inganno strategico, ed è ben documentato: segnali di falsa pericolosità, mimetismi, bluff, manipolazione deliberata del comportamento altrui. Ma una quota ampia di misinformation emerge anche in assenza di qualunque selezione diretta “per mentire”. È sufficiente che l’informazione venga copiata invece che verificata, che venga generalizzata oltre il contesto in cui è stata appresa, o che venga mantenuta quando l’ambiente è già cambiato. In questi casi nessun individuo sta ingannando attivamente, e tuttavia l’informazione che circola è falsa rispetto allo stato del mondo.
Questo consente di interpretare la disinformazione come un analogo funzionale delle mutazioni nei sistemi genetici. La replicazione dell’informazione, come quella del DNA, non è mai perfetta. Errori, variazioni e distorsioni sono inevitabili quando un contenuto viene copiato attraverso canali limitati. Nei sistemi genetici queste variazioni producono diversità su cui agisce la selezione naturale; nei sistemi di informazione sociale producono diversità comportamentale e cognitiva. In entrambi i casi, la selezione non agisce sulla fedeltà della copia in quanto tale, ma sugli effetti che quella copia produce nel contesto ecologico e sociale.
L’apprendimento sociale è vantaggioso perché riduce i costi dell’esplorazione individuale. Copiare ciò che fanno gli altri è spesso una buona approssimazione di una strategia adattativa. Ma questo vantaggio ha un prezzo strutturale: ciò che viene copiato non è il mondo, bensì il comportamento altrui come proxy del mondo. Se il proxy è sbagliato, o diventa sbagliato nel tempo, l’errore si propaga. All’aumentare della dipendenza dall’informazione sociale cresce quindi anche la vulnerabilità a errori condivisi, che possono diffondersi rapidamente e stabilizzarsi a livello di popolazione.
Nelle specie sociali questo quadro si arricchisce di un ulteriore livello selettivo. Il vantaggio che guida l’evoluzione dei sistemi di comunicazione non coincide più soltanto con il successo riproduttivo individuale, ma incorpora una dimensione di vantaggio sociale che può evolvere in modo parzialmente indipendente. Status, reputazione, centralità nelle reti di interazione, capacità di orientare il comportamento altrui e di influenzare decisioni collettive hanno un valore adattativo proprio. In questo contesto, la produzione e la circolazione di informazione diventano strumenti di posizionamento sociale prima ancora che di rappresentazione accurata della realtà.
La conseguenza è rilevante: un contenuto informativo può essere selezionato e mantenuto non perché migliora direttamente la sopravvivenza o la riproduzione, ma perché rafforza legami, segnala appartenenza, consolida gerarchie o aumenta il controllo sui flussi informativi del gruppo. In una specie sociale, il vantaggio sociale e quello riproduttivo restano connessi, ma non coincidono più punto per punto. Possono divergere temporalmente e funzionalmente, permettendo la persistenza di informazione distorta purché socialmente efficace.
Questo spiega perché la disinformazione, una volta emersa, può diventare sorprendentemente stabile. Non si limita a sopravvivere per inerzia cognitiva, ma può essere sostenuta attivamente da dinamiche di gruppo che premiano la coerenza interna, la rapidità di diffusione o la fedeltà identitaria più dell’accuratezza. Quando l’intero sistema informativo si sincronizza su contenuti sbagliati, la popolazione perde capacità correttiva non per ignoranza individuale, ma per collasso della diversità informazionale, in modo non dissimile da un collo di bottiglia genetico.
Il valore del lavoro sta quindi nel chiarire il livello corretto del problema. La disinformazione non è un accidente recente né una semplice deviazione correggibile a colpi di smentite. È una conseguenza inevitabile del fatto che l’evoluzione ha ripetutamente favorito sistemi basati sull’informazione trasmessa piuttosto che sulla verifica individuale continua, e che nelle specie sociali questa informazione ha assunto anche una funzione strutturante delle relazioni. Comprendere questo non riduce la gravità del fenomeno nei sistemi umani; ne spiega la profondità, la resilienza e la capacità di adattarsi. E soprattutto evita l’errore concettuale più diffuso: trattare come un problema morale contingente ciò che è, prima di tutto, un problema evolutivo strutturale.