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Cambiare gli status per un ambientalismo efficace. Dai jet alla moda sostenibile

Set 23, 2022

Se, come è evidente, possiamo sperare di salvare noi stessi solo attraverso l’abbandono di uno stile di vita basato sul massimo consumo possibile a ciascun abitante del pianeta, è allora necessario interrogarsi su quale sia il modo migliore per avere almeno qualche possibilità di raggiungere questo risultato.
Fra le persone che si interrogano in questo senso, credo valga la pena di ascoltare Solitaire Townsend, un’imprenditrice e attivista per l’ambiente che è considerata esperta di sostenibilità e che ha scritto diffusamente per sostenere la causa ambientalista. Townsend ha co-fondato l’agenzia di cambiamento Futerra nel 2001, una delle prime agenzie di sostenibilità nel Regno Unito. È una delle principali sostenitrici di approcci che facciano leva sulla speranza e sulla positività per arrivare alla sostenibilità ambientale.

 

Per comprendere il suo punto di vista, vale forse la pena di considerare un suo recente articolo, che parte considerando un tema usato anche in campagna elettorale da noi contro qualche politico come Renzi, ovvero l’emissione smodata di anidride carbonica da parte di jet privati e in particolare da parte di Taylor Swift, che, con 8293 tonnellate di carbonio emesse finora quest’anno, è stata giudicata la celebrità più inquinante del mondo in termini di utilizzo di jet privati.

 

Come accaduto recentemente a Renzi, l’utilizzo sfrontato di un mezzo di trasporto come un jet privato, cui sono connesse emissioni massicce di gas serra, rafforza in chi ha a cuore la causa ambientale il disgusto per la nostra cultura ossessionata dalle celebrità e dal consumo. Pertanto, per promuovere la causa della preservazione ambientale si prospetta come unico mezzo per salvare il mondo da un’apocalisse innescata dall’avidità il completo abbandono di certi eccessi e il ritorno a modi di vita molto più sobri e meno impattanti.

Questa è un’idea allettante, sostiene Townsend, ma ha un grosso inconveniente: quando gli ambientalisti ci esortano a preoccuparci meno dell’acquisto di automobili e vestiti, e invece basano le nostre scelte di vita sulle risorse limitate del pianeta, ignorano una parte elementare della nostra natura ominide: la preoccupazione per lo status.

 

Per i primati, e in generale per tutti gli animali che competono fra loro per l’accoppiamento, lo status è la chiave di accesso alla riproduzione: i diritti di riproduzione. Come Townsend ricorda, Charles Darwin ha definito le manifestazioni di status osservabili in natura come “segnalazione onesta”: le piume ostentate dei pavoni maschi, per esempio, dimostrano alle femmine che sono così abili nel trovare cibo ed evitare i predatori da potersi permettere un piumaggio grande, luminoso e metabolicamente dispendioso. L’ingombro delle corna nei cervi maschi, sovradimensionate rispetto alle esigenze del combattimento e pericolose tanto che alcuni animali restano impigliati per giorni, sono un secondo esempio. Altri animali comprano gioielli e macchine veloci.

 

Se quindi lo status, acquisito appunto consumando inutilmente risorse, è una caratteristica perfettamente naturale di molte specie, inclusa la nostra, gli eco-attivisti, che sottolineano appunto come l’uomo non debba porsi al di sopra della natura ma rispettarne l’essenza, entrano secondo la Townsend in una contraddizione logica, che tuttavia può contenere una interessante via d’uscita.

L’autrice, a tal scopo, ci esorta a ricordare la realtà dell’essere grandi scimmie, dismettendo le esortazioni irrealistiche ad agire come angeli o santi francescani.
Piuttosto che cercare di contrastare il nostro desiderio evoluto di status, forse dovremmo cambiare i simboli usati per mostrarlo. Fortunatamente, la semiotica dello status è malleabile. Nel corso della storia, infatti, gli esseri umani sono stati molto creativi nel modo di comunicare il proprio status, con esempi che vanno dalla fasciatura dei piedi nella Cina tardo imperiale all’annerimento mediante lucido di scarpe dei denti da parte dei vittoriani più poveri poiché solo i ricchi potevano permettersi lo zucchero che causava la carie.

 

Se il consumo di beni a basso impatto ambientale potesse trasmettere un segnale di alto status, riflette l’autrice, forse le persone comincerebbero a preferire quelli, sostenendo volentieri il costo maggiore come fanno con altri simboli di status al giorno d’oggi. La moda, per esempio, potrebbe trasferire la comunicazione di status ad abiti da fibre riciclate, considerato il suo altissimo impatto ambientale odierno. Meglio ancora, se gli status symbol divenissero virtuali, come si comincia a vedere nel caso delle opere d’arte virtuale e degli nft, forse si potrebbe rinunciare agli impattanti status simboli attuali, come automobili e viaggi su jet privati. Si passerebbe cioè da status symbol ad alto contenuto di carbonio, spesso non riciclabili e dalla vita brevissima, a simboli virtuali, riutilizzabili e sostenibili, diminuendo non solo le emissioni, ma anche l’utilizzo di risorse rare e preziose. 

 

A questo interessante ragionamento di Townsend non resta che aggiungere un ulteriore argomento: lo status non è solo utilizzato ai fini della selezione sessuale, ma anche e soprattutto, in tutti gli animali sociali, per comunicare una più alta posizione nella gerarchia sociale informale e formale. L’uso e lo spreco di risorse (celebri le argenterie gettate nel Tevere dopo le cene dai papi del passato, poi ripescate di nascosto da appositi addetti) servono a comunicare potenza e quindi dominio, scoraggiando i rivali e attirando alleati.

Se la Townsend ha ragione, può darsi che il modo migliore per convincere uno sterminato branco di grandi scimmie a comportarsi da angeli è quello di simboleggiare lo status in modo diverso: un meccanismo di persuasione culturale interessante e originale, che forse potrebbe funzionare molto meglio rispetto a far leva sulle prospettive catastrofiche del futuro.

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