Auguri. Agli inglesi, naturalmente. Sono soprattutto loro, adesso, ad averne bisogno. Per la Ue, i rischi della Brexit erano concentrati sul prima: la trattativa con Londra avrebbe potuto scatenare divisioni e controversie fra i 27 paesi rimasti nell’Unione. Non è avvenuto. Per gli inglesi, invece, i problemi arrivano adesso, che devono imparare a nuotare da soli. Ma, intanto, chi ha vinto, chi ha perso? A scorrere le oltre 1.200 pagine dell’accordo, l’impressione è che quattro anni di trattative abbiano portato ad una conclusione non inaspettata: il compromesso è stato trovato rinviando la soluzione di buona parte dei problemi al futuro. In larga misura, insomma, il rapporto Uk-Ue è ancora da costruire. Un po’ come se, in un divorzio, cura dei figli, pagamento del mutuo, uso della casa al mare e dell’auto di famiglia, domicilio del cane fossero rinviati ad una sistemazione successiva, nella speranza di un atteggiamento collaborativo da parte di tutti e due gli ex coniugi. In questo rapporto futuro, tuttavia, il manico sembra nelle mani della Ue. E l’Inghilterra (prima di dire Gran Bretagna bisognerebbe capire se resta tutta intera)? Il mondo cambia in fretta, ma, se resta com’è, per Londra sarà più dura di quanto sperasse.
Il centro dell’accordo è l’assenza di dazi sul commercio. La reclamavano in particolare gli inglesi, ma, paradossalmente, ci guadagnano soprattutto gli europei. Lo dicono i numeri: l’Europa esporta beni in Gran Bretagna per 100 miliardi di euro in più di quanto importi. Eventuali tariffe avrebbero penalizzato di più l’export europeo. Tuttavia, nel mondo di oggi, gli ostacoli al commercio non sono di solito i dazi, ma le normative. E qui, l’accordo di Natale lascia tutto per aria. Ci saranno da riempire scartoffie doganali a non finire, test di conformità alle norme sanitarie e fitosanitarie, certificati di rispetto degli standard tecnici e pare assai difficile che, nel confronto di regole e standard sulle esportazioni, prevalgano i parametri inglesi. Inoltre, le inevitabili strozzature colpiranno il 13 per cento dell’export Ue, ma metà di quello inglese.
Il rinvio dell’allineamento di regole e standard non è l’unico buco dell’accordo di Natale, e neanche il più grosso. L’80 per cento del Pil inglese non è fatto di merci, ma di servizi e un milione di persone lavora nel solo settore finanziario. Ma qui, nel testo, campeggia un gigantesco omissis. Banche, assicurazioni, finanziarie, mercati di dati, creatori di software, hanno nell’Unione europea il loro primo mercato e il 25 per cento del loro fatturato. Ma, da gennaio, se non hanno filiali registrate e regolamentate nella Ue, dovranno volta per volta, paese per paese, ottenere una autorizzazione per operare e fare affari. Nel settore di punta dell’economia moderna, insomma, Boris Johnson ha lasciato gli inglesi a terra. Gli europei avranno quasi certamente un atteggiamento benevolo verso le finanziarie inglesi, affidabili e competenti, ma nessun obbligo.
Anche l’immagine di una Inghilterra libera da vincoli e impacci in materia di regole, norme, diritti dei lavoratori, aiuti di Stato, resta in buona parte un miraggio: Johnson ha ottenuto di non doversi automaticamente attenere alle regole Ue e l’accordo specifica che a dirimere controversie non sarà la Corte Ue di Lussemburgo, ma un collegio arbitrale indipendente, ma il rischio che Bruxelles colpisca con dazi punitivi eventuali avventure ultraliberiste (in materia di regole sanitarie e sindacali) o ultrastataliste (negli aiuti alle imprese) è concreto.
E rende traballante il sogno fondatore della Brexit: una Inghilterra trasformata in un’agile nave corsara, senza le zavorre di Bruxelles, nei mari dell’economia globale.
Non è l’unico motivo per cui questa Brexit, forse, nasce già superata dai fatti. Le sono venuti a mancare, infatti, rispetto al 2016, l’anno del referendum, due ingredienti fondamentali. Esce di scena l’amico americano, possibile partner di una alleanza anglosassone. Al contrario di Trump, Biden appare più interessato ad un rapporto con Bruxelles, piuttosto che con Londra. In più, “tutto il modello della global Britain non riflette il mondo più protezionista e nazionalista in cui viviamo oggi” dice il direttore del Centro sull’Europa dell’americana Brookings, Thomas Wright. Nel proliferare di dazi, barriere, blocchi commerciali, “diventare un liberoscambista globale nel 2020 è un po’ come diventare comunista nel 1989. Bad timing, è il momento sbagliato”.