MILANO – Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, potrebbe mettere la parola fine al Ttip, il trattato di libero scambio tra Usa e Ue a cui la Casa Bianca e Bruxelles stanno lavorando dal 2013. Gli inglesi erano i primi sostenitori dell’intesa anche nella loro ottica di trasformare l’Unione europea in un’enorme area di libero scambio senza vincoli politici. Con l’esito del referendum, Londra si è chiamata fuori lasciando il pallino dei negoziati con Washington a Parigi e Berlino che sul trattato hanno già sollevato diversi dubbi. “Gli americani stanno perdendo uno dei paesi più favorevoli all’accordo” dice Chad Bown, ex economista della Banca mondiale. Di certo il tema sarà sul tavolo al Consiglio europeo in programma fino a domani: il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, ha chiesto ai governi un rinnovo del mandato per chiudere l’intesa, ma il referendum inglese ha rapidamente cambiato le priorità europee.
Lo stop francese. E così, mentre l’Italia, con il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, spinge per un’intesa veloce prima della fine della presidenza Obama, il primo ministro francese, Manuel Valls, dice: “Nessun accordo di libero scambio dovrebbe essere concluso se non rispetta gli interessi dell’Ue. L’Europa deve essere ferma e la Francia vigilerà su questo”. La presa di posizione di Valls, arrivata all’indomani di Brexit, diventa anche più dura: “Non ci può essere un accordo sul trattato transatlantico, non siamo sulla buona strada” perché l’accordo Ttip “sarebbe imporre un punto di vista che non solo potrebbe essere terreno fertile per il populismo”, ma anche, più semplicemente un punto di vista che rappresenterebbe “un male per la nostra economia”. “Non ci sarà alcun accordo prima del 2018” ha dichiarato a Reuters Heather Conley direttore degli studi europei del Thin Tank americano Csis.
La finestra di opportunità. Per il momento i negoziatori preferiscono non parlare in attesa dell’ennesimo round di incontri in programma a metà luglio a Bruxelles e continuano a lavorare sulle questioni più tecniche, mentre le controversie più complicate sono lasciate ai leader politici che nei prossimi mesi avranno da risolvere l’uscita di Londra dalla Ue. Il contesto è in continua evoluzione e anche per questo i diplomatici sono ancora riluttanti a mettere sul tavole quelle che venfono definite “le ultime offerte”. D’altra parte la “finestra di opportunità” si sta rapidamente chiudendo: il mandato di Barack Obama alla Casa Bianca termina a gennaio e nessuno dei candidati in corsa per la successione pare aver intenzione di spendersi per il Ttip. Nel 2017 in Europa inizierà una nuova tornata di elezioni e difficilmente il presidente francese Francois Hollande – la cui popolarità è già al minimo per la legge sul lavoro – sfiderà nuovamente le piazze. Nel 2018 si torna al voto in Germania e Italia e l’anno dopo verranno rinnovati Parlamento e Commissione Ue. Insomma se non si chiudesse entro fine anno bisognerebbe aspettare “almeno fino al 2020” ha osservato più volte Paolo De Castro, eurodeputato ed ex ministro delle politiche agricole.
Negoziati. Inoltre lo stile negoziale delle parti è molto diverso: se gli europei cercano di smussare gli angoli poco alla volta, gli americani tendono a dire “no” fino alla fine per mettere alle strette la controparte presentando poi una proposta “last minute”. La strada però resta tutta in salita: dopo tre anni di negoziati non esiste ancora un testo consolidato, le trattative sono ancora ferme allo scambio di offerte. E le proposte arrivate da una parte e dall’altra mostrano come le parti siano ancora distanti anni luce sul tema dell’agricoltura con l’Europa che ha sbattuto la porta in faccia alle richieste americane di aprire il mercato alle sua carni con gli ormoni e ai prodotti geneticamente modificati e gli Usa che restano sordi sulla tutela dei nomi dei prodotti Doc.
Gli appalti pubblici. Sulla stessa lunghezza d’onda i negoziatori si lamentano della timida apertura americana sul fronte degli appalti pubblici: Washington non ha problemi a riconoscere il libero accesso alle gare, ma non ha intenzione di derogare alla legge “buy american”. In sostanza chiunque può aggiudicarsi un appalto, ma il 50% dei prodotti utilizzati per i lavori deve essere americano. Come a dire che un’impresa europea per costruire un autostrada americana dovrebbe utilizzare solo cemento a stelle e strisce. Una condizioni inaccettabile per Bruxelles perché discrimina i prodotti europei, non crea lavoro nel Vecchio continente e non alimenta il Pil. Utile, quindi, solo per le multinazionali, ma in contrasto con gli obiettivi dichiarati dal Ttip che punta a una crescita dell’economia – a regime – nell’ordine di 120 miliardi di euro con l’aumento dell’occupazione. L’Europa vorrebbe anche accesso al settore dei tasporti marittini e aerei, mentre gli Stati Uniti chiedono libero accesso nel campo della sanità e in quello dell’educazione: fronti sui quali nessuno dei negoziatori ha intenzione di cedere.
Arbitrati. La parti sono distanti anche sulla questione della tutela degli investimenti esteri: gli americani vorrebbero una corte arbitrale nominata di volta in volta a seconda delle dispute, l’Unione europea propone – sulla falsariga di quanto fatto con il Canada – un tribunale con un doppio grado di giudizio composo tra giudici e non professionisti interessati a compiare questa o quell’altra parte con lo scopo di essere richiamati per un nuovo arbitraro. Su questo punto, però, nessuno dei due attori è pronto a venire incontro all’altro.
Governance globale. Se l’accesso ai mercati, uno dei tre pilastri su cui si basa il Ttip insieme alla cooperazione regolamentare e le regole globali, divide profondamente Usa e Ue gli altri sono moldo meno complessiv. Stati Uniti e Europa hanno una visione comune della governance globale e hanno, soprattutto, l’interesse a scrivere un impianto di regole prima che a farlo sia una potenza emergente come la Cina. Da questo punto di vista ai tecnici dei trattati manca solo l’input politico sul come scrivere le regole: l’esempio più chiaro è quello che riguarda la tutela dei lavoratori. Washington è d’accordo con Bruxelles sui principi, ma non vuole che l’intesa passi per la ratifica delle convenzioni Ilo. “E’ una questione di forma, più che di sostanza”, spiega una fonte. Come a dire che per gli Stati Uniti gli accordi sottoscritti davanti all’Organizzazione internazionale del lavoro sono condivisibili nella sostanza, ma non nella loro forma. Serve quindi uno sforzo comune per trovare un’intesa sui termini.
La regolamentazione. Il secondo fronte è quello della regolamentazione e della definizione dello standard dei prodotti. L’intesa politica su questo fronte è praticamente totale. La volontà è di garantire il livello più alto su entrambe le sponde dell’Atlantico: in questo senso, quindi, la difficoltà è puramente tecnica. Insomma, una questione di pazienza: gli sherpa devono mettersi a tavolino per scrivere tutti i dettagli, dalla dimensione degli specchietti per le auto alle cinture di sicurezza. Una lavoro mastodontico, ma che non dovrebbe presentare incognite.