AGI – Cinquantuno suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, una progressione statistica che può rendere il 2022 uno degli anni più orribili di un’istituzione in crisi profonda. Due di questi nella casa circondariale di Monza, uno a febbraio, il secondo pochi giorni fa di un ragazzo tunisino di 24 anni a cui sono seguiti tre roghi di protesta appiccati dai reclusi nelle ultime ore.
Il momento in cui si scatena la rabbia
Domenico Benemia, agente della polizia penitenziaria nella città brianzola e sincalista dell’Uilpa Lombardia, racconta all’AGI cosa sta succedendo dal punto di vista dell’altra faccia del carcere che agonizza. “Ogni santo giorno, uno di noi viene aggredito dai detenuti con conseguenze fisiche anche gravi. Pugni e sputi in faccia, oggetti che vengono lanciati, botte. La giornata comincia, appena messo piede dentro, coi reclusi che hanno problemi psichiatrici o sono tossicodipendenti che ci sommergono di richieste. Vogliono parlare con gli psicologi, gli psichiatri, gli educatori, il personale amministrativo”.
Ed è in questo passaggio che si alimenta la loro rabbia “perché queste figure non ci sono o, se ci sono, il loro numero è ridicolo rispetto alle esigenze”.
Benemia fa i conti: “Con 600 detenuti abbiamo solo 4 educatori e un solo psichiatra presente di giorno ma non di notte quando gli animi si scaldano. E chi ci aggredisce avrebbe proprio bisogno di questa figura che non c’è. I malati psichiatrici dovrebbero stare in un luogo di cura, non dietro le sbarre. Provate a pensare: siete in un ufficio delle Poste, c’è un solo addetto e voi passata la giornata ad aspettare. Che fate? Vi arrabbiate. E la rabbia dentro un carcere vuol dire prendersela con chi è più vicino. Con noi”.
Benemia mostra le foto di agenti col volto insanguinato. “Diversi sono finiti in ospedale. Dall’inizio dell’anno a Monza sono già stati accesi una decina di roghi con la devastazione delle strutture e danno economico per lo Stato”.
“Non ce l’abbiamo coi detenuti, siamo carne da macello”
Gli agenti in forze alla casa circondariale sono 300, “un numero esiguo perché abbiamo tante mansioni, alcune che ci competono, come occuparci degli spostamenti dei detenuti, altre no, come le attività amministrative, la contabilità. Ma lo Stato ci ha messo a fare anche quello perché manca il personale con competenze specifiche in questo ambito”.
“Il carcere è come un paese senza bar, tabacchino, supermercato. Un paese vuoto. I detenuti passano il tempo ad accumulare frustrazione che poi riversano su di noi. Sì, ci sono i volontari ma si dovrebbe fare molto di più per il loro percorso di reinserimento. Nessuno di noi ce l’ha con loro, è il sistema che non funziona”. E i suicidi sono pugni in faccia. “Quando uno di noi trova una persona senza vita, sta molto male. Magari al mattino ci aveva parlato perché poi a noi tocca anche fare gli psicologi, in mancanza di quelli veri. E alla sera lo trova morto. Siamo carne da macello: noi e loro”.