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Blockchain: è boom ma non è tutta speculazione

Mag 5, 2018

Qualche tempo fa abbiamo visto come, almeno per alcuni aspetti, il fenomeno blockchain somigli almeno un po’ a quella che ricordiamo come la “bolla dotcom“. Il meccanismo non riguarda però il “succo della faccenda”, cioè la tecnologia blockchain in sé – che probabilmente avrà un ruolo centrale nell’evoluzione tecnologica dei prossimi anni.

Assistiamo senz’altro a un abuso del nome e della tecnologia stessa. Nascono e muoiono decine di progetti ogni settimana, e ci sono stati persino casi di attività del tutto slegate (compresa almeno una gelateria) che ha messo “blockchain” nel nome tanto per sfruttare l’onda speculativa – e ci hanno anche guadagnato.

Un recente report della School of Management Politecnico di Milano conferma la tendenza: nel 2017 i progetti relativi sono cresciuti del 73% e gli annunci del 273%. Già che gli annunci siano il quadruplo dei progetti rilevati è un fatto notevole di per sé, che ci informa almeno un po’ su quanto fumo ci sia rispetto all’arrosto.

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La ricerca citata cerca di superare il mondo delle criptovalute e rileva che i settori interessati sono anche il tracciamento, le catene di fornitura, la gestione documenti e i mercati finanziari. “Sei progetti su dieci riguardano la finanza, ma la tecnologia si diffonde anche per l’uso di governi, logistica, utility, agrifood, assicurazioni. 29 banche centrali stanno studiando come utilizzarla per le loro valute”, si legge su un recente comunicato stampa.

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Insomma, blockchain si sta lentamente ma inesorabilmente espandendo oltre il mondo delle criptovalute. Queste ultime sono e resteranno un asset speculativo ancora a lungo, ma come abbiamo già visto diverse volte dietro a ognuna di esse c’è quasi sempre un progetto, e almeno alcuni di essi daranno dei frutti.

“Anche i governi e le banche centrali, dopo l’iniziale diffidenza legata alla capacità di disintermediazione delle criptovalute, hanno iniziato a studiare il fenomeno per rendere più efficienti monete e sistemi di pagamento“, rileva l’istituto milanese. L’elenco include ben 29 banche centrali.

“Oggi la Blockchain potrebbe essere il fattore chiave per abilitare la nuova generazione di Internet, ovvero l’Internet of Value: una rete digitale di nodi che si trasferiscono valore, in assenza di fiducia, attraverso un sistema di algoritmi e regole crittografiche che permette di raggiungere il consenso sulle modifiche di un registro distribuito che tiene traccia dei trasferimenti di valore tramite asset digitali univoci”.

Questo passaggio è particolarmente interessante proprio perché compare nel documento della School of Management. Ci dice, dunque, che ormai blockchain ha superato gran parte delle barriere e che anche il mondo finanziario e professionale è pronto ad abbracciare questa tecnologia e le sue potenzialità.

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Per quanto riguarda la realtà locale, si rileva che “in Italia il fenomeno è ancora poco conosciuto e si evidenziano al momento poche sperimentazioni”, come conferma Valeria Portale, Direttore dell’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger.

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Nel nostro paese c’è una comunità di sviluppatori più che discreta ma anche “una carenza culturaledelle imprese che tendono a non investire in una tecnologia in una fase preliminare e ancora immatura”, continua Portale. Il documento elenca poi alcune sperimentazioni italiane degne di interesse, tra cui Marco Polo, R3 e SIAChain, ABI Lab, We.Trade, Borsa Italiana (in collaborazione con IBM), Intesa Sanpaolo ed Eternity Wall, Creval, Enerchain (Enel ed E.ON, con la collaborazione della startup tedesca Ponton), Interbit – Eni, B3i, Consiglio Nazionale del Notariato, Torrefazione Caffè San Domenico, Wine Blockchain EY, e Gruppo Italiano Vinicolo – Almaviva.

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Una lista relativamente corposa, che include anche alcuni progetti piuttosto ambiziosi. Forse persino più di quanto fosse lecito aspettarsi, per un Paese che, come affermato da Portale, paga una “carenza culturale”. Se e quando imprenditori e amministratori italiani sapranno superare questo handicap, allora la tecnologia blockchain potrebbe penetrare più in profondità nel nostro tessuto economico – senza che necessariamente nascano decine di criptovalute e token di conseguenza. E chissà che non renda più semplice la vita di tutti noi.

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