Un problema di comunicazione, dicono. Sarebbe questo che, secondo gli adepti della biodinamica in viticoltura, impedisce il riconoscimento reciproco tra scienza e biodinamica, con la prima che equipara la seconda alla stregoneria. Paradossalmente, nello stesso articolo in cui si rigetta l’etichetta di stregoneria e si vorrebbe ridurre tutto a un problema di comunicazione, troviamo poi scritte cose come quelle nel seguente periodo: “Nella biodinamica il metallo è associato al fuoco e rimanda alla fermentazione alcolica come energia vitale”. O ancora: “Sull’esoterismo è facile arrivarci perché certi aspetti, come l’uso delle fasi lunari, il corno letame, sono pratiche che danno questa idea. Si parla di energie cosmiche, ma anche dell’uso di materiali non comuni durante la vinificazione”. Ora, vorrei capire in che modo i concetti racchiusi in queste tipiche proposizioni biodinamiche potrebbero essere compatibili con il metodo scientifico, così che un semplice accorgimento comunicativo potrebbe superare la barriera di cui si lamenta l’ovvia esistenza.
Ma tralasciamo questa contraddizione in termini propria di chi da una parte vorrebbe semplificare tutto come mancata comunicazione, e dall’altra esprime idee che sono tipiche del pensiero magico; ammettiamo per un attimo che davvero i sostenitori della biodinamica siano disposti a rinunciare alla paccottiglia di energie cosmiche, vitalismo, pelli di topo e insetti bruciati, dinamizzazioni, pomodori introversi e patate dal carattere difficile, influenze astrologiche e così via. Supponiamo cioè che essi siano disposti – anche se in realtà non lo sono – a voler mettere davvero alla prova scientifica una serie di pratiche, senza fare assunzioni sul perché funzionano e bruciando nella stufa i testi esoterici dei loro guru, a partire da Steiner.
Supponiamo poi che ci siano degli scienziati i quali non si ricordino che, sulla base delle migliori teorie fisiche e chimiche circa il funzionamento dell’universo, un prodotto diluito oltre una certa soglia non può avere alcun effetto, per cui non ha senso mettere alla prova un trattamento nullo, prima di avere ipotizzato una nuova fisica e una nuova chimica che possano essere messe alla prova sperimentalmente e che possano avere la stessa potenza interpretativa e predittiva dei modelli attuali. Se accettiamo queste premesse (entrambe false, è bene ricordarlo), possiamo provare a leggere quanto scrivono coloro che usano tecniche avanzate per cominciare a dimostrare un effetto dei preparati biodinamici.
Poiché stiamo parlando di vino biodinamico, prendiamo un recentissimo scritto, attualmente in revisione su una rivista Springer, che esamina l’effetto del preparato 500 su viti di due vitigni diversi, il fiano e il pallagrello. Il lettore di un simile testo, se è un ricercatore, non può non rimanere colpito dall’uso disinvolto delle cifre significative delle misure effettuate, spesso diverse fra media e deviazione standard, tanto per fare un esempio; ma, superata l’allergia a simili dimostrazioni che varrebbero per uno studente la bocciatura a un qualunque esame di materie scientifiche, lo studio ha ben altri problemi.
Il primo, e più importante, è quello della cosiddetta correlazione spuria. In sostanza, se scelgo una variabile di interesse che caratterizzi due campioni – in questo caso, trattamento con il preparato 500 e assenza del trattamento – e poi ricerco in un gruppo molto ampio di altri parametri misurati sui due campioni altre variabili che in media differiscano fra quei due gruppi, purché il numero di parametri su cui effettuo la ricerca sia sufficientemente ampio, è matematicamente certo (per questioni probabilistiche) che troverò tali variabili che distinguono i due campioni in esame, soprattutto se tali campioni sono piccoli, come nel caso in esame (per ogni vitigno, 5 piante trattate contro 5 non trattate).
Per capire intuitivamente la cosa senza ricorrere a una prova matematica, immaginiamo di prendere due gruppi di cinque persone, differenziandole in base a una certa variabile – per esempio l’età superiore o inferiore ai trenta anni. Esaminiamo poi i due gruppi di persone per un gran numero di altre variabili, per esempio sesso, colore dei capelli, peso, livello di istruzione, colore degli occhi e così via, per decine e decine se non centinaia di variabili diverse.
Come è facile immaginare, potrei trovare che i due gruppi di età media diversa siano distinti anche da qualche altra variabile: ad esempio, in un gruppo potrei avere significativamente più cognomi che iniziano con la lettera C, oppure potrei trovare più maschi rispetto all’altro, oppure potrei trovare più persone con occhi chiari. Se io deducessi che l’età influenza il cognome, oppure il colore degli occhi, perché nel gruppo più giovane ho trovato occhi diversi rispetto al mio gruppo di controllo di età maggiore, oppure influenza il cognome o il sesso, per lo stesso motivo, mi credereste? Ovviamente no; ed è questa la ragione per cui non è possibile credere a chi afferma che sulla base di misure di tantissime cose diverse misurate su cinque piante di vite trattate in confronto a cinque non trattate con il cornoletame biodinamico, sia possibile rilevare qualche effetto del trattamento. Quale sarebbe un metodo scientifico per mettere davvero alla prova il cornoletame, ammesso di buttare a mare chimica e fisica che ci dicono che una diluizione omeopatica non può funzionare?
Innanzitutto, andrebbe campionato un numero di piante perlomeno compatibile con il numero di parametri su cui si intende cercare gli effetti del trattamento. In secondo luogo, chi effettua le misure dovrebbe essere del tutto all’oscuro in quanto al trattamento del campione fornitogli, cioè la sperimentazione andrebbe condotta in cieco, con campioni misti che contengano anche replicati (all’insaputa dello sperimentatore, e per valutare la sensibilità e l’accuratezza del metodo di discriminazione in sviluppo). In terzo luogo, ammesso che si sia riusciti a trovare in cieco un insieme di parametri che distinguono il trattamento, la prova finale andrebbe condotta su un nuovo e diverso insieme di campioni, ancora in cieco.
Alla fine, se – e non lo credo finché non lo vedo – dovesse emergere qualche differenza, bisognerebbe fare un’analisi dei potenziali fattori confondenti e dei bias nell’intero protocollo, per essere certi di non stare distinguendo caratteristiche diverse da quelle che si intende (come accade spesso per esempio nel caso dell’uso di intelligenza artificiale); a questo scopo, è necessario correlare in modo causale, attraverso un meccanismo preciso, le differenze osservate al trattamento biodinamico.
Cosa possiamo concludere da questo breve excursus? Il problema, cari vignaioli, è di metodo, non di comunicazione. Perché la scienza è appunto, innanzitutto, un metodo, e gli stessi che vi presentano certi risultati potrebbero non averlo utilizzato davvero o potrebbero aver commesso degli errori palesi, errori che chi coltiva difficilmente potrà individuare, ma che agli occhi della comunità scientifica sono molto ben evidenti.
Se volete coltivare il vino “per sottrazione”, cioè intervenendo il meno possibile su piante e cantine (ma il rame?), e a patto che, come giustamente sottolineato nell’articolo citato in apertura, non si utilizzi questo come scusa per giustificare il difetto del prodotto finale, tutto bene, perché il vino è comunque un prodotto voluttuario, con cui non si sfama il mondo; ma per piacere, se volete il parere della comunità scientifica, allora siate pronti anche a rigettare come ciarpame tutto ciò che va oltre queste semplici considerazioni, se non trova vera conferma in esperimenti controllati come si deve.