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Battlefield 1 offende gli Alpini? La Storia è anche questa – Tom’s Hardware

Ott 25, 2016

Battlefield 1, il nuovo sparatutto di DICE ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, sembra aver convinto critica e appassionati. Tuttavia, c’è chi si è indignato di fronte alle cruente missioni che chiamano i giocatori a combattere sul Monte Grappa, il rilievo veneto teatro di scontri decisivi durante il conflitto.

Le polemiche sono arrivate prima ancora dell’uscita del gioco. Protestano il presidente dell’Associazione degli Alpini, un assessore regionale e perfino Luca Zaia, il presidente della Regione Veneto. È un sacrilegio, sostengono in coro. Non si può giocare su un luogo sacro.

È così? Ne parliamo con il prof. Antonio Brusa, storico e specialista in Didattica della Storia. Uno dei primi, in Italia, a giocare con la storia, cosa che continua a fare nel suo sito Historialudens.it

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Allora, perché queste proteste?

prof antonio brusa

prof antonio brusaCome siano andate le cose nel dettaglio, è difficile saperlo leggendo i giornali. Quello che sembra certo è che la prima protesta, di Sebastiano Favero presidente dell’Associazione degli Alpini (ANA), è stata pubblicata un po’ alla cieca, senza guardare il gioco, e a ruota sono intervenuti il consigliere regionale Sergio Berlato, mentre il giorno dopo, il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, non ha fatto mancare la sua disapprovazione. Quello che ha dato fastidio, quindi, è che l’idea di un gioco di guerra potesse essere accostata al Monte Grappa. Un luogo sacro dove è una bestemmia giocare.

Messa così, non si potrebbe dare loro tutti i torti. È comprensibile la preoccupazione che giocare in un luogo sacro non è una cosa buona. Ma Batterfield 1 usa il Monte Grappa come scenario. Mica si va realmente sul posto.

prof antonio brusa

prof antonio brusaIn realtà, è abbastanza usuale far svolgere avventure in luoghi sacri. Indiana Jones ci ha realizzato la metà delle sue imprese e Dan Brown ne ha una passione smodata. Questo accade anche per le avventure giocate: basti pensare ai giochi di ruolo o da tavolo pubblicati in occasione del Giubileo. Pellegrinaggi virtuali. Vince chi arriva primo a Roma, alla tomba di san Pietro, o al Santo Sepolcro. I luoghi più sacri della Cristianità. Non mi pare che qualcuno si sia stracciato le vesti.

Piuttosto mi chiederei che cosa si intende quando si parla del Monte Grappa come luogo sacro. Per me storico, quello è un luogo di memoria. Non è una questione di lana caprina. Un luogo di memoria è un posto dove si va a ripensare il passato. E lo posso ripensare in tutte le forme che la mia cultura permette: racconti, mostre, spettacoli teatrali, musica, o anche giochi. Infatti, il gioco, per quanto divertente, è uno strumento di conoscenza. Lì, su quei monti si è svolta una carneficina. 23 mila soldati morti. Quindi è un luogo terribile, dove dovremmo impegnare a fondo tutte le nostre capacità di ricordare.

battlefield 1 monte grappabattlefield 1 monte grappa

Il presidente dell’ANA, invece, lo definisce come un luogo sacro. Cioè, un luogo dove si celebra qualcosa. Celebriamo un massacro, allora? Credo che questi interventi, più che il problema dei giochi, mettano in rilievo una questione molto grave, per le nostre istituzioni: una cultura del passato sbagliata, ancora legata a pratiche di celebrazione della guerra (certo, come sacrificio per la nazione: ma sempre di celebrazione si tratta). Ma noi non celebriamo la morte. La lotta, per esempio, che conduciamo in tutte le scuole per la giornata della Memoria del 27 gennaio, è proprio quella di insegnare che “non si celebra” Auschwitz. Ma lo si studia, lo si cerca di capire. E Auschwitz è il prototipo dei luoghi di memoria del Novecento. Anche del Monte Grappa.

Giusto. Ma su un luogo di memoria sarebbe forse più corretto ambientare un gioco di ruolo sulla guerra, o di strategia? O un gioco che faccia capire la sofferenza nelle trincee? Così non ci sarebbe scandalo. Lo sparatutto invece, secondo molti (non secondo noi), è un gioco che esalta e spettacolarizza la carneficina…

prof antonio brusa

prof antonio brusa L’elettronica ha fatto il miracolo di moltiplicare all’infinito il divertimento del gioco dei soldatini. È magnifico, per un gioco. Perché il gioco deve piacere, anche se di guerra. Proprio questo fa scandalo. Come se giocare alla guerra fosse “esaltare la guerra” o “imparare a fare la guerra”. Ma questa reazione è una semplice mancanza di cultura, che (ancora una volta) impressiona parecchio se manifestata da rappresentanti istituzionali.

Un nome di quelli che, per restare in tema, è “sacro”: Umberto Eco. Si trovava a Monaco, durante le Olimpiadi, quelle dell’attentato in cui furono assassinati degli atleti israeliani. Va in un negozio per comprare un gioco di guerra per un bambino. La commessa è inorridita, e lui le spiega, con calma, che giocare è “di per sé” essere contro la guerra. Quando fai la guerra, il tuo nemico lo uccidi. Ma quando giochi, lui deve vivere. Se no, contro chi giochi, la prossima volta? La guerra per gioco è l’unica guerra in cui non si muore mai. E concludeva, dicendo di stare attenti piuttosto a chi compra il Monopoli. Perché, magari il bambino ti diventa un truce sfruttatore di inquilini (non sapeva, ai grandi succede talvolta, che anche il Monopoli fu inventato per insegnare quanto è terribile il capitalismo).

Leggi anche: Anteprima Battlefield 1

Battelfield 1, come dicono tutti i trailer e quelli che ci hanno sbirciato, il divertimento lo assicura. Ma che cosa impara uno, giocandoci?

prof antonio brusa

prof antonio brusa In genere i giochi di questo genere insegnano attraverso gli scenari. Assassin’s Creed, per esempio viene usato in scuole e università (non italiane, a quanto mi risulta, ahimè), come introduzione allo studio di una determinata società. La ricostruzione della Firenze rinascimentale è ormai un must fra i colleghi. Perfetta. Tu la vedi e, quando poi studi le vicende storiche, sai un po’ meglio dove collocare la Congiura dei Pazzi e Lorenzo dei Medici coi suoi amici. Li immagini vividamente e, magari, li ricorderai più facilmente.

A vedere il trailer, l’episodio del Monte Grappa, invece, non sembra insegnare molto, per quanto riguarda i luoghi. Montagne, vallate, stradine. Potrebbero essere in Veneto, o in Piemonte o in Francia. Da questo punto di vista, la reazione è stata a dir poco prematura. In fondo, nell’economia del gioco servivano paesaggi differenti: la città, e hanno scelto Amiens; per la foresta hanno preso le Ardenne, il paesaggio desertico lo hanno trovato a Suez. Per le montagne il Veneto e per il mare il nostro Adriatico: anzi le coste italiane del mare, dove – dice il trailer – un incantevole villaggio mediterraneo diventa il teatro di feroci combattimenti. Forse Amiens è ben riconoscibile (ma non ci è dato di conoscere proteste di quel sindaco). Sugli altri paesaggi non ci giurerei, a meno che qualche sindaco della costa barese non vi si riconosca e scriva un’invettiva pure lui.

Non è nemmeno fedele la tecnica dei combattimenti. Il nostro eroe corre, salta di qua e di là, va continuamente all’assalto. Tutto il contrario della guerra logorante di trincea che conosciamo. Ciò che è fedele (e su internet vi sono già dei video a mostrarlo) sono le armi, le divise, le insegne, le macchine e i velivoli: questo nella più pura tradizione dei giochi di guerra e del reenactment in particolare. Però, qualcosa della guerra c’è e si sente: i rumori, l’atmosfera, le grida (in italiano), la nebbia e il fumo. Era tanta la confusione che i soldati avevano problemi di orientamento. È quello che ho provato io, vedendo un trailer. Gente che fugge in tutte le direzioni. Quali sono gli amici e quali i nemici? Esplosioni. Da che parte devi andare, se i colpi provengono da ogni dove? Beh: se vuoi comunicare questo, il gioco vale più del racconto.

Chi ha protestato sostiene che DICE ha mancato di rispetto al corpo degli alpini. È così?

prof antonio brusa

prof antonio brusa Ho visto la missione “Avanti Savoia”, quella dedicata all’Italia. Si apre con il vecchio reduce, che guarda le foto. La figlia gli va accanto, gli fa delle domande. Lui comincia a ricordare. E si va sulla scena. C’è la vestizione dell’eroe. È chiaramente una vestizione rituale, di un eroe mitico, perché quella corazza che indossa richiama, certo, quella che nei loro scellerati tentativi fecero realmente indossare ai fanti, ma in realtà è una corazza da supereroe. Non gli impedisce, come quella, i movimenti. L’eroe, dunque, scatta in avanti. Deve conquistare una chiesetta, poi una postazione di cannoni e infine combattere contro uno stormo di aerei. Finisce con una frana che seppellisce tutti, vincitori e vinti. Lui si salva. Si sfila, uno dopo l’altro i componenti dell’armatura. Un commentatore, su internet, confessa di essersi commosso. Lo confesso anch’io.

Dov’è la mancanza di rispetto? Nel battage pubblicitario si afferma che si è voluto rendere omaggio agli alpini che, in situazioni di inferiorità, furono costretti ad adottare strategie di guerra nuove e ardite. È questo che il gioco racconta. E sottolinea che avvenne in Italia, sul Monte Grappa. E, da oggi, milioni di ragazzi, di ogni lingua e cultura, sapranno questo, e ascolteranno i soldati imprecare in italiano, vedranno una chiesetta sicuramente italiana e un paesaggio che lo potrebbe essere. Anche questa è conoscenza. Brandelli, certo. Ma nuclei conoscitivi che entreranno a far parte della memoria di una quantità innumerevole di uomini.

C’è una branca della storiografia che si occupa di questo aspetto della nostra società: la Public History. Ci spiega che i giochi sono il veicolo più efficace che abbiamo per diffondere conoscenze sul passato. Nella discussione in rete, che ho seguito e apprezzato (perché animata da gente desiderosa di capire, come se ne vede raramente in internet), ho trovato l’intervento di un soldato italiano. Scrive: “Ho combattuto in Afghanistan come guastatore alpino. Sono stato testimone del valore degli alpini italiani in molte e svariate occasioni. Su questi fatti di valore mai una parola dell’ANA; se il ricordo dei nostri caduti e dei nostri feriti vivrà anche nei videogiochi, credo siamo a un passo evolutivo fondamentale”.

Antonio Brusa ha insegnato didattica della storia presso le Università di Bari e di Pavia. Attualmente fa parte del comitato scientifico dell’Insmli (Istituto Nazionale per la storia del movimento di Liberazione) e del direttivo del Criat, che il consorzio interuniversitario pugliese per la studio del territorio. Dirige Novecento.org, rivista di didattica della storia contemporanea. È autore di numerosi saggi di ricerca didattica e storica, pubblicati in Italia e all’estero e di manuali di storia per le medie e il biennio.

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