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Baffi, l’intellettuale liberista in un’epoca difficile

Ott 3, 2019
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L’ex Governatore di Bankitalia Paolo Baffi (Fotogramma)

3′ di lettura

Vide benissimo «il sentiero angusto» dell’economia italiana, eternamente stretta fra inflazione e deflazione. Paolo Baffi, di cui quest’anno ricorre il trentennale della morte, celebrato a Roma a Scienze Politiche dell’università La Sapienza, dove insegnò Storia e politica monetaria tra il 1970 e il 1979, traduceva in questo modo la definizione “The narrow path” con la quale la rivista The Banker dipingeva a tinte fosche le aporie del nostro sistema economico, nell’anno di grazia 1976.

Era un’epoca, secondo le stesse parole usate da Baffi, che fu Governatore di via Nazionale fra il 1975 e il 1979, in cui la gestione della politica monetaria era assimilabile a una «economia dello stato d’assedio». Quando l’economista di Broni, allievo di Giorgio Mortara, subentrò a Guido Carli nella guida di via Nazionale, l’Italia era infatti caduta in una fortissima recessione, innescata dallo shock petrolifero e dalla stretta creditizia concordata con il Fondo monetario per contrastare il forte squilibrio nei conti con l’estero, l’impennata di un’inflazione a due cifre, il deprezzamento della lira.

Accadde così che Baffi, economista liberale e liberista (tutte da rileggere, ad esempio, sono le sue “Osservazioni sull’Iri”, formulate nel 1954, in cui proponeva di privatizzare l’ente, dopo aver espresso radicali dubbi sulle motivazioni dell’impresa pubblica) dovette sfoderare un pragmatismo da tempi drammatici. E infatti scrisse che vi sono momenti in cui, in presenza di dissesto finanziario e di inflazione salariale «il controllo della massa monetaria debba essere abbandonato, per evitare, almeno nell’immediato, mali maggiori».

Come ha ricordato l’attuale responsabile di via Nazionale, Ignazio Visco, alle critiche di the Banker che riteneva che la politica monetaria italiana tenesse le redini troppo lente sulla massa monetaria e per questo non riuscisse a governare l’inflazione, Baffi replicò spiegando che il problema italiano, in quel momento, non erano i dosaggi della moneta, ma l’eccesso di rigidità dei salari, determinato da un’indicizzazione salariale al 100 per cento con un adeguamento molto veloce, perché su base trimestrale: una scala mobile che tendeva a perequare i salari mentre i sindacati spingevano con molta forza per riaprire i ventagli retributivi.

In queste condizioni, affermava Baffi, una forte restrizione monetaria è controproducente perché finisce con il far aumentare l’inflazione da costi. Senza contare il fatto che, come osserva l’economista della Luiss Marcello Messori, Baffi sentiva in modo fortissimo il suo ruolo di servitore dello Stato e di buon cittadino e in quel preciso contesto storico (gli anni Settanta, anni di piombo, come si ricorderà) desiderava minimizzare le interferenze della banca centrale in rapporto alla regolazione dei conflitti sociali. Baffi, insomma, non guardava solo alla moneta: guardava al Paese nel suo complesso.

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