Vince i 200 stile libero, il suo centoventinovesimo titolo italiano, con 1’56”69 centra il limite olimpico, a Tokyo saranno i suoi quinti Giochi, e piange. Piange di gioia e forse anche un po’ di rabbia, piange di felicità e forse un po’ anche di tutte quelle difficoltà, quei disagi, anche quei casini combinati in un anno di vita pandemica. Piange e si scusa: “Scusate per le lacrime, ma non sono stati mesi semplici questi ultimi”. Piange e si asciuga le lacrime: “Adesso si respira molto meglio. Sono arrivata alla quinta Olimpiade”. No, non ce la fa: “E mi viene da piangere un’altra volta”.
C’è da capirla, Federica Pellegrini, la Divina, soprannome soprannaturale regalata soltanto a un’altra primadonna, Suzanne Lenglen, parigina, 25 titoli del Grande Slam tennistico, che da piccola si allenava indirizzando la pallina in un fazzoletto spiegato dall’altra parte del campo. A Tokyo, dal 23 luglio all’8 agosto, Federica compirà 33 anni (il 5 agosto), un’età in cui spesso campionesse e campioni non solo hanno smesso di nuotare, ma anche di commentare il nuoto. Lo sport sarà privilegio se non lusso, sarà disciplina e non solo fortuna, sarà passione prima che professione, ma a quei livelli – alti, altissimi, spaziali – comporta stress, provoca frustrazioni, reca danni. Imbottite di talento, fortificate di autostima, poche stelle brillano così a lungo. Finché, al colmo della contentezza, tracimono con qualche lacrima imprevista. E umanissima.
Anche i campioni piangono. Eddy Merckx, il Cannibale, pianse di impotenza. Giro d’Italia 1969, sedicesima tappa, la Parma-Savona di 234 chilometri, il giorno dopo il riposo: primo un elbano, Roberto Ballini, e la sua vittoria sarebbe stata per sempre oscurata da quello che successe dopo la tappa. Merckx aveva già vinto quattro tappe e indossava la maglia rosa. Felice Gimondi, Italo Zilioli e gli altri si erano già quasi rassegnati a una supremazia che sembrava inattaccabile, anzi, indiscutibile. Ma la mattina seguente la carovana fu terremotata dalla notizia della positività di Merckx all’esame antidoping: colpa di uno stimolante, la fencamcamina, contenuto nel Reactivan, prodotta dalla casa farmaceutica statunitense – ironia della sorte – quasi omonima (Merk), in libera vendita in Italia. Eddy non ci credeva, non ci poteva credere, negò, parlò subito di un errore, e se non era un errore allora si trattava di un complotto ciclopolitico, di un intrigo internazionale. Il più forte corridore di sempre, steso sul letto dell’albergo Excelsior, ad Albisola, in canottiera, calzoncini da corridore con sottili bretelle, indelebile abbronzatura tipo muratore e la maglia rosa appoggiata sul comodino, intervistato da Sergio Zavoli, era precipitato in un abisso. Ventisette giorni più tardi, grazie a una semiassoluzione per buona fede, scattava al via del Tour de France. Si rifece, alla grande, alla grandissima, alla Cannibale: vinse sei tappe individuali e una a squadre, conquistò la maglia gialla e si impose anche nelle classifiche a punti, dei gran premi della montagna e della combattività. Il secondo, il francese Roger Pingeon, fu staccato di 17’54”: un altro abisso.
Anche i duri piangono. Accadde a Oliver McCall, peso massimo americano di Chicago, che se si era guadagnato il nomignolo di “Atomic Bull”, il toro atomico, un motivo ci sarà stato. Aveva 29 anni quando gli fu concessa la possibilità di incontrare Lennox Lewis, statuario inglese nero, per quel titolo mondiale che Jack London avrebbe di gran lunga preferito a quello di re d’Inghilterra o presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania. Nel secondo round, McCall assestò un destro “spuntato dal nulla”, come tramanda la leggenda, e vinse il match per kot: Lewis si era rialzato dal tappeto, ma tremando sulle gambe. La rivincita si consumò tre anni più tardi: McCall aveva perso il titolo, che era rimasto vacante. Nel quarto round, subito un uno-due, McCall si rifiutò di continuare a combattere, cominciò a camminare per il ring, riparandosi e sfuggendo, e continuò a farlo anche dopo il gong, finché l’arbitro Mills Lane si accorse che stava piangendo. In un breve e concitato confabulare, l’arbitro e il “corner” di McCall decisero per la prosecuzione dell’incontro. Ma McCall non era capace di fare altro che camminare e piangere. “Per alcuni secondi – disse Lewis – pensavo che mi stesse imbrogliando. Ma poi ho visto i suoi occhi e non erano gli occhi di un pugile… Le lacrime scendevano sulle sue guance”.
Anche i piccoli piangono. Olimpiadi di Barcellona 1992, canottaggio, due di coppia, cioè due remi a testa più il timoniere. L’equipaggio britannico era composto da due fratelli monumentali come i bronzi di Riace, anche se loro venivano da Ashford, 80 chilometri a sud di Londra. Si chiamavano Greg e Jonny Searle, erano alti quasi due metri e pesavano quasi un quintale. Il timoniere era Garry Herbert, aveva il collo lungo, il corpo corto e una voce potente, tonante, imperiosa. E la sua voce dava cadenza e ritmo, era autoritaria e, prima del pronti-via, incantevole: “Volete fare qualcosa di magico?”. L’armo conquistò la medaglia d’oro in una regata epica e trionfale almeno quanto furono, per noi, italiani, quelle dei fratelli Abbagnale. Ma alle note del “God save theQueen”, l’inno inglese, Herbert non si trattenne: in piedi, in basso, davanti a quei due giganti, mentre gli altri cantavano, lui trasformò il sorriso in una smorfia e poi scoppiò a piangere. “Proprio come uno scolaretto – fu fatto questo paragone – a cui dei bulli a scuola avevano appena rubato il portafoglio con i risparmi”.
Anche, soprattutto, i pagliacci piangono. Paul John (in omaggio a Paul McCartney e a John Lennon) Gascoigne era un fenomeno del calcio sceso, ridotto, costretto a fare il pagliaccio per convivere con le sue fragilità, le sue debolezze, i suoi vizi. Alcol, azzardo, altro. Un talento sprecato, sperperato, sporcato. Ma c’era un cuore. E ci furono lacrime. Coppa del mondo 1990, semifinale Inghilterra-Germania, prima l’ammonizione che automaticamente gli avrebbe fatto saltare la finalissima, poi la sconfitta. Uscì dal campo in lacrime. E continuò a farlo negli spogliatoi, perfino sotto la doccia. Come se piovesse sul bagnato.
Un fine settimana di “altri sport”
Rugby: il Benetton supera i francesi dell’Agen 29-16, ed è la prima volta cheuna squadra italiana raggiunge gli ottavi di finale della ERChallenge Cup.
Pallavolo: Perugia in finale (3-0 contro Monza), l’altra fra Civitanova e Trento (2-1).
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Vince i 200 stile libero, il suo centoventinovesimo titolo italiano, con 1’56”69 centra il limite olimpico, a Tokyo saranno i suoi quinti Giochi, e piange. Piange di gioia e forse anche un po’ di rabbia, piange di felicità e forse un po’ anche di tutte quelle difficoltà, quei disagi, anche quei casini combinati in un anno di vita pandemica. Piange e si scusa: “Scusate per le lacrime, ma non sono stati mesi semplici questi ultimi”. Piange e si asciuga le lacrime: “Adesso si respira molto meglio. Sono arrivata alla quinta Olimpiade”. No, non ce la fa: “E mi viene da piangere un’altra volta”.
C’è da capirla, Federica Pellegrini, la Divina, soprannome soprannaturale regalata soltanto a un’altra primadonna, Suzanne Lenglen, parigina, 25 titoli del Grande Slam tennistico, che da piccola si allenava indirizzando la pallina in un fazzoletto spiegato dall’altra parte del campo. A Tokyo, dal 23 luglio all’8 agosto, Federica compirà 33 anni (il 5 agosto), un’età in cui spesso campionesse e campioni non solo hanno smesso di nuotare, ma anche di commentare il nuoto. Lo sport sarà privilegio se non lusso, sarà disciplina e non solo fortuna, sarà passione prima che professione, ma a quei livelli – alti, altissimi, spaziali – comporta stress, provoca frustrazioni, reca danni. Imbottite di talento, fortificate di autostima, poche stelle brillano così a lungo. Finché, al colmo della contentezza, tracimono con qualche lacrima imprevista. E umanissima.
Anche i campioni piangono. Eddy Merckx, il Cannibale, pianse di impotenza. Giro d’Italia 1969, sedicesima tappa, la Parma-Savona di 234 chilometri, il giorno dopo il riposo: primo un elbano, Roberto Ballini, e la sua vittoria sarebbe stata per sempre oscurata da quello che successe dopo la tappa. Merckx aveva già vinto quattro tappe e indossava la maglia rosa. Felice Gimondi, Italo Zilioli e gli altri si erano già quasi rassegnati a una supremazia che sembrava inattaccabile, anzi, indiscutibile. Ma la mattina seguente la carovana fu terremotata dalla notizia della positività di Merckx all’esame antidoping: colpa di uno stimolante, la fencamcamina, contenuto nel Reactivan, prodotta dalla casa farmaceutica statunitense – ironia della sorte – quasi omonima (Merk), in libera vendita in Italia. Eddy non ci credeva, non ci poteva credere, negò, parlò subito di un errore, e se non era un errore allora si trattava di un complotto ciclopolitico, di un intrigo internazionale. Il più forte corridore di sempre, steso sul letto dell’albergo Excelsior, ad Albisola, in canottiera, calzoncini da corridore con sottili bretelle, indelebile abbronzatura tipo muratore e la maglia rosa appoggiata sul comodino, intervistato da Sergio Zavoli, era precipitato in un abisso. Ventisette giorni più tardi, grazie a una semiassoluzione per buona fede, scattava al via del Tour de France. Si rifece, alla grande, alla grandissima, alla Cannibale: vinse sei tappe individuali e una a squadre, conquistò la maglia gialla e si impose anche nelle classifiche a punti, dei gran premi della montagna e della combattività. Il secondo, il francese Roger Pingeon, fu staccato di 17’54”: un altro abisso.
Anche i duri piangono. Accadde a Oliver McCall, peso massimo americano di Chicago, che se si era guadagnato il nomignolo di “Atomic Bull”, il toro atomico, un motivo ci sarà stato. Aveva 29 anni quando gli fu concessa la possibilità di incontrare Lennox Lewis, statuario inglese nero, per quel titolo mondiale che Jack London avrebbe di gran lunga preferito a quello di re d’Inghilterra o presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania. Nel secondo round, McCall assestò un destro “spuntato dal nulla”, come tramanda la leggenda, e vinse il match per kot: Lewis si era rialzato dal tappeto, ma tremando sulle gambe. La rivincita si consumò tre anni più tardi: McCall aveva perso il titolo, che era rimasto vacante. Nel quarto round, subito un uno-due, McCall si rifiutò di continuare a combattere, cominciò a camminare per il ring, riparandosi e sfuggendo, e continuò a farlo anche dopo il gong, finché l’arbitro Mills Lane si accorse che stava piangendo. In un breve e concitato confabulare, l’arbitro e il “corner” di McCall decisero per la prosecuzione dell’incontro. Ma McCall non era capace di fare altro che camminare e piangere. “Per alcuni secondi – disse Lewis – pensavo che mi stesse imbrogliando. Ma poi ho visto i suoi occhi e non erano gli occhi di un pugile… Le lacrime scendevano sulle sue guance”.
Anche i piccoli piangono. Olimpiadi di Barcellona 1992, canottaggio, due di coppia, cioè due remi a testa più il timoniere. L’equipaggio britannico era composto da due fratelli monumentali come i bronzi di Riace, anche se loro venivano da Ashford, 80 chilometri a sud di Londra. Si chiamavano Greg e Jonny Searle, erano alti quasi due metri e pesavano quasi un quintale. Il timoniere era Garry Herbert, aveva il collo lungo, il corpo corto e una voce potente, tonante, imperiosa. E la sua voce dava cadenza e ritmo, era autoritaria e, prima del pronti-via, incantevole: “Volete fare qualcosa di magico?”. L’armo conquistò la medaglia d’oro in una regata epica e trionfale almeno quanto furono, per noi, italiani, quelle dei fratelli Abbagnale. Ma alle note del “God save theQueen”, l’inno inglese, Herbert non si trattenne: in piedi, in basso, davanti a quei due giganti, mentre gli altri cantavano, lui trasformò il sorriso in una smorfia e poi scoppiò a piangere. “Proprio come uno scolaretto – fu fatto questo paragone – a cui dei bulli a scuola avevano appena rubato il portafoglio con i risparmi”.
Anche, soprattutto, i pagliacci piangono. Paul John (in omaggio a Paul McCartney e a John Lennon) Gascoigne era un fenomeno del calcio sceso, ridotto, costretto a fare il pagliaccio per convivere con le sue fragilità, le sue debolezze, i suoi vizi. Alcol, azzardo, altro. Un talento sprecato, sperperato, sporcato. Ma c’era un cuore. E ci furono lacrime. Coppa del mondo 1990, semifinale Inghilterra-Germania, prima l’ammonizione che automaticamente gli avrebbe fatto saltare la finalissima, poi la sconfitta. Uscì dal campo in lacrime. E continuò a farlo negli spogliatoi, perfino sotto la doccia. Come se piovesse sul bagnato.
Un fine settimana di “altri sport”
Rugby: il Benetton supera i francesi dell’Agen 29-16, ed è la prima volta cheuna squadra italiana raggiunge gli ottavi di finale della ERChallenge Cup.
Pallavolo: Perugia in finale (3-0 contro Monza), l’altra fra Civitanova e Trento (2-1).
Ciclismo: Giro delle Fiandre, fuga e volata a due, il danese Kaspar Asgreen supera l’olandese Mathieu van der Poel.
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