Il nostro editorialista, Enrico De Vita, è intervenuto ai microfoni di Stefano Mensurati nella rubrica “Tra poco in edicola, su Radio 1 Rai, per commentare il ritorno di Alfa Romeo in Formula 1 grazie alla nuova partnership con Sauber. «Sicuramente si tratta di una mossa commerciale per acquisire immagine – spiega – perché Alfa Romeo non fornirà né motori né carrozzeria a Sauber. La vettura verrà sempre costruita in Svizzera e monterà power unit Ferrari. La Sauber possiede una moderna galleria del vento; Alfa Romeo potrebbe contribuire all’analisi dei materiali nei laboratori italiani. Di più per ora non si potrà fare, perché lo sviluppo della monoposto Sauber per il prossimo anno è già ad uno stadio avanzato, visto che debutterà in pista a febbraio. La Sauber quest’anno montava un motore Ferrari vecchio di un anno, mentre nel 2018 avrà una power unit aggiornata».
Quali sono, però, le prospettive per lo sviluppo di questa collaborazione? «Bisogna vedere quale apporto potranno dare i tecnici Alfa Romeo. Nello studio della tenuta di strada delle vetture di serie sono bravissimi, ma sono trent’anni che non si cimentano nella F1. Per ora, dunque, si tratta solo di un ritorno commerciale; d’altro canto il programma prevede che i motori Ferrari vengano forniti solo per l’anno prossimo, quindi esiste la possibilità teorica che Alfa Romeo successivamente fornisca i motori: anche se lo ritengo improbabile, in quanto molto costoso».
Possibile, poi, che si creino sinergie all’interno del gruppo FCA. «Disponendo di investimenti adeguati, oggi è facile acquisire tecnici che hanno la mano già allenata, quindi non dovrebbe essere difficile ricominciare da capo in Formula 1. C’è un certo scambio sia nella tecnologia di costruzione delle scocche in carbonio che in quella dei motori tra i brand del gruppo FCA: Maserati, ad esempio, sfrutta motori Ferrari. È probabile che ci sia una sinergia tra Ferrari e Alfa Romeo da quel punto di vista».
«Io ho vissuto, negli anni Ottanta, l’ingresso di Alfa Romeo nel gruppo Fiat; posso testimoniare come Fiat se ne sia avvantaggiata, sfruttando i migliori tecnici del Biscione, e anche le soluzioni più innovative, come il Twin Spark. Ma con quel passaggio, avvenuto quasi 20 anni prima dell’ingresso di Marchionne, Alfa perse la sua identità, diventando subalterna, perché dovette accettare le soluzioni Fiat, ad esempio la trazione anteriore, rinunciando al contempo a caratteristiche uniche al mondo, come il cambio posteriore o il ponte De Dion: un’infinità di soluzioni tecniche d’avanguardia che per questioni economiche vennero cancellate. Credo che ad un certo punto il mercato si sia accorto di questo, con le ovvie conseguenze dal punto di vista dell’immagine: era rimasto il marchio, ma erano scomparse la tradizione motoristica e telaistica che l’Alfa Romeo aveva affermato per 100 anni. Negli anni Novanta, Arese non era più la fucina di talenti che era stata in passato».
«Per Alfa Romeo si apre una fase in cui si può sfruttare la visibilità mondiale legata alla F1 per far conoscere – o riscoprire – il marchio in tutto il mondo, specie negli USA. Alfa Romeo ha personalità stilistica, ma manca l’immagine dell’affidabilità totale. Oggi non si può vendere nei mercati stranieri una vettura sportiva o un SUV se la gente non è sicura di poterci fare oltre 100.000 km senza inconvenienti. Marchionne ha ereditato un’Alfa Romeo che era già stata fagocitata dal marchio e dalla filosofia Fiat, che produceva vetture con un costo inferiore, ma che all’affidabilità dava meno importanza rispetto ai giapponesi, proprio nel momento in cui questa diventava la miglior arma di conquista dei mercati».
«Oggi per correre in F1 bisogna essere bravissimi e contare su progettisti che riescano a rielaborare la vettura ogni settimana, in modo tale da renderla competitiva su ogni circuito, sfruttando i dati raccolti in pista durante le prove libere. La F1 oggi è un’arte costosissima, che richiede centinaia di tecnici al lavoro. Mercedes è riuscita a sviluppare un motore ibrido dall’efficienza termica elevatissima e dalla grande affidabilità; la Ferrari nel 2017 è quella che le si è avvicinata di più».
A proposito di Ferrari – osserva Mensurati – da molti anni la Rossa non ha piloti del Bel Paese, ma gli italiani la tifano lo stesso, preferendola ad eventuali alfieri della nostra nazione impegnati con altri team, al momento però assenti. Nelle moto, invece, questa attenzione al marchio non c’è mai stata: lì si fa il tifo per l’italiano, Valentino Rossi su tutti. Perché questa differenza? «Per quanto riguarda i piloti della moto, c’è una grande tradizione in Italia, da Agostini in avanti, con Case nazionali. Poi, però, le fabbriche italiane di motociclette sono diventate in parte statali e in parte parastatali, oppure sono in mano straniera, come Ducati, di proprietà di Audi, ma con tecnici e prodotti italiani. In questo campo i giapponesi ci hanno superato da tempo in tecnologia, in affidabilità, nella innovazione e soprattutto nei prezzi. E sono diventati i numero uno al mondo».
«Nella F1, il marchio Ferrari utilizza anche tecnici che non sono italiani. Ma non abbiamo piloti ad altissimo livello perché non c’è stata una scuola che abbia potuto sfornare nuove leve. Il marchio Ferrari è di per sé un mito, un mito italiano: la stampa di tutto il mondo ha ammirato da sempre le Ferrari di serie, le auto più belle del passato, forse perché le Ferrari degli anni Cinquanta sono diventate delle vere statue di modernità, ambite in tutto il mondo. In questo modo, il marchio è diventato un’icona di moda, di stile, un mito pure in casa nostra, anche se i piloti che guidano le F1 sono tutti stranieri».