MADRID – “Solo chi ha visto da vicino queste persone che lottano, questi eroi col braccialetto rosso, può capire”.
Albert Espinosa è l’autore di un libro e di una fiction televisiva tremendamente realistica. Perché “Braccialetti rossi”, successo in libreria e sugli schermi prima in Spagna e poi in Italia, è la storia stessa della vita di questo scrittore e regista catalano che ha vissuto dai 14 ai 24 anni in ospedale, con un cancro in seguito al quale ha perso una gamba, un polmone e mezzo fegato.
Suo malgrado, spettatore privilegiato della sofferenza.
Che riflessione le suggerisce il primo caso di eutanasia di un minorenne?
“Io ho lottato per dieci anni contro il cancro, ho perso molti amici, e sono sempre stato a favore della morte degna. La parola eutanasia è brutta, l’espressione morte degna descrive invece bene ciò di cui si tratta. Mi chiedo sempre quante volte una persona debba dimostrare il suo coraggio perché si arrivi a considerarla coraggiosa. Tutti questi bambini, bambine, giovani che soffrono lunghe malattie, nel corso degli anni dimostrano in dieci, quindici, venti occasioni tutto il loro coraggio. Per questo devono avere il diritto a morire in modo dignitoso. E questo non dovrebbe succedere solo in Belgio ma in qualsiasi paese. L’importante non è vivere o morire, ma lottare”.
C’è chi sostiene che un minorenne non può avere la capacità di affrontare una decisione così estrema. In base alla sua esperienza, raccontata anche sugli schermi con “Braccialetti rossi”, cosa pensa di poter replicare?
“Penso che un minorenne che ha il cancro, o un’altra malattia grave, finisce per avere un’intelligenza e una forza maggiori rispetto a quelle di un adulto. Chi dice queste cosa, non ha patito il dolore, non sa cosa significhi lottare per vivere”.
In Olanda si fissa un limite d’età a 12 anni, il Belgio è il primo paese che non pone limiti. Quale le sembra la strada corretta?
“Non credo che la legge debba indicare un’età. Qualunque persona malata sa quando è arrivato il momento in cui la sua lotta diventa impossibile, in cui non c’è più margine per tollerare la sofferenza.
Ogni settimana vado in ospedale a visitare bambini, anche di sette anni, che dimostrano una maturità straordinaria, a volte superiore a quella di persone adulte o anche anziane. Il Belgio è stato solo il primo, ma penso che debba essere il cammino che col tempo dovrebbero percorrere tutti i paesi”.
La sua esperienza le suggerisce che la frontiera debba essere quella della sofferenza fisica insopportabile, o il diritto a questa scelta estrema dovrebbe essere limitato ai casi in cui la morte imminente sia ormai inevitabile?
“Io che ho avuto tanti amici che sono morti di cancro – in “Braccialetti rossi” abbiamo raccontato tutto questo, mentre “Braccialetti azzurri”, il romanzo che ho pubblicato lo scorso anno, parlava proprio del diritto alla morte degna – penso che alla fine l’importante sia proprio questo perché ho visto troppe persone soffrire in modo non necessario. Il tema non è questo: non è stabilire se il limite sia il dolore fisico o lo scarso periodo di tempo che ti resta da vivere. È semplicemente il diritto che hai. La gente ha diritto a procreare, a portare una nuova vita a questo mondo, ma anche a scegliere il momento in cui mettere fine alla propria esistenza. Tu solo puoi sapere quando continuare a vivere non ha più un senso. Se qualcuno mi dice che non ce la fa più ad andare avanti, io non rispondo mai “sei un vigliacco”, ma lo capisco””.