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A tre mesi dalla Brexit il terremoto non c’è ancora stato

Set 23, 2016

LONDRA – Sono passati tre mesi dal terremoto: ma le scosse di assestamento non ci sono e i danni non si vedono. Non ancora, perlomeno: magari la casa è già incrinata e crollerà fra due anni. E’ questo il bilancio di Brexit che economisti, media e cifre tracciano tre mesi dopo il referendum del 23 giugno scorso, con cui la Gran Bretagna ha deciso (52 a 48 per cento) di uscire dall’Unione Europea. Un voto che non ha specificato “come” uscire; e il “quando” rimane incerto, in attesa che il governo di Theresa May invochi – nel febbraio prossimo, secondo le indiscrezioni – l’articolo 50 del trattato europeo sulla procedura di secessione di uno stato membro, aprendo una trattativa di due anni (prorogabili, se sono tutti d’accordo).

Ma in attesa che Brexit si realizzi, giornali ed esperti fanno il punto sulle conseguenze immediate della storica decisione. La prima constatazione è che il terremoto c’è stato, dal punto di vista politico, ma per il momento non ha causato il finimondo che era stato previsto. La borsa di Londra non è crollata. La Gran Bretagna non è entrata in recessione: Ocse e Fondo Monetario Internazionale sono stati costretti nei giorni scorsi a rimangiarsi il pronostico di una crisi economica. Ora la stima è che il Pil britannico quest’anno continuerà a crescere, dell’1,9 per cento secondo le aspettative della banca di investimenti Ubs. Si prevede che rallenterà bruscamente nel 2017, con un’anemica espansione dello 0,7 per cento – ma comunque senza entrare in recessione. La sterlina ha perso quota, questa previsione almeno è stata realizzata, ma meno del temuto e il calo ha favorito le esportazioni. Ha anche reso più costose le importazioni e già si vedono le avvisaglie di un rallentamento di ordinazioni di materie prime: per alcuni l’alternativa, riporta il Times, è quasi pirandelliana, i supermarket pianificano di restringere le dimensioni di certi prodotti piuttosto che aumentare i prezzi.

A tre mesi dalla Brexit il terremoto non c'è ancora stato

Il grafico mostra l’andamento sovrapposto della Borsa di Londra (Ftse 100, in bianco), delle principali azioni europee (Stoxx 600, in giallo) e di Piazza Affari (Ftse Mib, in verde). Dalla Brexit ad oggi, a fare meglio di tutti è stata proprio la City

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Altre profezie smentite: i consumatori non si sono impauriti e continuano a spendere, l’attività economica non si è contratta; i prezzi degli immobili invece sì e la crescita dei salari pure, ma meno di quanto si prevedeva. A Londra il mattone vale quasi il 10 per cento di meno e tuttavia questo ha generato un rialzo della domanda: molta gente fiuta il momento propizio per comprare casa. E la disoccupazione rimane al livello più basso degli ultimi undici anni, a quota 4,9 per cento. Commenta trionfalmente la stampa euroscettica, rivolta alla valanga di leader politici, premi Nobel per l’economia, imprenditori e banchieri: “Avevate previsto il disastro e invece va tutto bene, dunque avevamo ragione noi a credere che Brexit sarà un successo”.

Concorda, ma solo fino a un certo punto, Joe Grice, capo economista dell’Office for National Statistics britannico: “In effetti lo shock non c’è stato. Fino ad ora sembra che il risultato del referendum non abbia avuto effetti di rilievo sull’economia nazionale. Diciamo che il Regno Unito non è caduto al primo ostacolo, ma gli effetti a lungo termine di Brexit restano da vedere”. La corsa, in sostanza, è ancora lunga e piena di trappole. La Banca d’Inghilterra ripete che l’economia britannica ha davanti a sé “un difficile periodo di incertezza e aggiustamenti” dovuti alle conseguenze di Brexit. La Banca Centrale Europea è della stessa opinione: “L’incertezza generata dal referendum sulla permanenza nella Ue graverà sulla domanda nazionale del Regno Unito”, afferma nel bollettino di questa settimana. E il Financial Times pubblica un rapporto sulle certe ripercussioni negative per almeno 5500 società registrate nella City, nel momento in cui perderanno i “passport rights”, il diritto di vendere servizi al resto d’Europa senza frontiera, una volta che la Gran Bretagna avrà effettivamente lasciato la Ue. I Llodys di Londra, più grande mercato di assicurazioni al mondo, conferma questo allarme con l’annuncio odierno che la compagnia sta lavorando su “piani contingenti” per aprire una sussidiaria in un paese della Ue non appena Theresa May invocherà l’articolo 50 che dà il via al negoziato sulla secessione. Inga Beale, l’amministratrice delegata, cita tre città come opzioni per il (pur parziale) trasferimento: Dublino, Parigi e Francoforte. Si può scommettere che, se i Llloyds lasciano Londra, saranno in molti a seguirli.

Se il terremoto non ha ancora fatto danni, insomma, è perché in realtà non è ancora cominciato. Inizierà a febbraio, con l’apertura di quello che il ministro per l’Uscita dall’Europa (sì, ora c’è un ministero così nel governo britannico) David Davis definisce già “il negoziato più complicato della storia”. Un negoziato al termine del quale, come scrive Martin Wolf, più autorevole commentatore economico del Financial Times, difficilmente troverà soluzioni di compromesso o vie di mezzo: la scelta della May sarà tra restare nella Ue, attraverso un ipotetico secondo referendum o elezioni anticipate che tradirebbero la volontà espressa dagli elettori nel primo referendum scatenando una rivolta nel partito conservatore, opzione che perciò la nuova premier tenderebbe a escludere; e un “hard Brexit”, un Brexit duro, ovvero un’uscita completa dalla Ue e dal mercato unico. Dopo la quale Londra dovrà rinegoziare patti commerciali, e accordi su una miriade di altre questioni, con la Ue e con il resto del mondo. Un rapporto diffuso stamane dall’Absolute Strategy Research conferma l’opinione del columnist del quotidiano della City: la Gran Bretagna va verso un “hard Brexit”. E a quel punto sì che di Brexit si vedranno gli effetti. Al momento è come congratularsi per l’assenza di starnuti con qualcuno che non ha il raffreddore.

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