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Coronavirus, le restrizioni e il fattore tempo nella coda dell’occhio

Mar 28, 2020
Giorgino (Luiss): Ecco come comunicare (meglio) il coronavirus

Cosa dice la neuroscienza

Nel tentativo di spiegare la preminenza della nostra sfera impulsiva ed emotiva sulla razionalità, gli scienziati hanno accertato che solo un quarto del glucosio consumato dal nostro cervello alimenta la corteccia prefrontale, deputata a esprimere concetti cognitivi complessi, l’espressione e l’autorappresentazione della personalità, la sfera decisionale e la moderazione della concotta sociale. I tre quarti dell’energia del cervello è invece bruciato dal sistema limbico, deputato alla memoria a breve termine, l’umore, il senso di autocoscienza che determinano il comportamento degli individui.

Il frame linguistico

Non aiuta l’utilizzo della terminologia: “Siamo in guerra!”, ci sentiamo dire. Una prospettiva conosciuta per esperienza diretta da chi ha oltre 80 anni ma non per tutti gli altri, per i quali la guerra non è certo un contesto che ci si augura di vivere (meglio il lessico sportivo o scacchistico: fa un po’ “Il settimo sigillo” di Bergman, ma tant’è). Le parole sono importanti e producono un frame, cioè un inquadramento mentale, che tendiamo ad allontanare da noi e a non affrontare. Il che produce l’effetto opposto di attendere la fine di quest’incubo e rendere questa fase ancor meno sopportabile. Fino alla rimozione di questo ricordo. Così è già accaduto: negli anni 50 l’epidemia di asiatica uccise circa 30mila italiani ma senza l’overcoverage informativa di questi giorni; il boom economico degli anni successivi contribuì a cancellare il ricordo di quell’ecatombe non troppo diversa da quell’attuale. La differenza tra queste due epoche sta nell’infodemia, ossia la pioggia di informazioni sul tema coronavirus attraverso social e mass media, il che genera una centralità ossessiva nelle conversazioni private.

Il rischio è di creare soprattutto preoccupazione, ansia e paura. Anzi: una comunicazione di questo tipo – soprattutto in fasce della popolazione meno alfabetizzata – sottrare risorse psicofisiche utili per ingenerare quella distanza sociale e rispetto delle norme di autoreclusione che risultano la migliore prevenzione. Per essere efficaci non possiamo prescindere dal capire come funziona il nostro cervello se vogliamo individuare messaggi corretti e utili per la collettività. “Essendo la paura un’emozione primitiva, questa non può essere gestita a livello razionale – dice Duccio Martelli, visiting professor ad Harvard ed esperto di economia comportamentale -. Una comunicazione basata su dati e numeri è inefficace, se non addirittura poco opportuna in certi casi. Il nostro cervello è solito dare poco peso ai dati positivi, mentre tende ad amplificare in maniera significativa quelli negativi”.

La leva sull’azione

Attenzione: rendere più restrittive le misure di distanziamento sociale non certo sbagliato per contrastare la diffusione del coronavirus. Invocare questa misura in concomitanza di dati negativi, evitando di sottolineare in modo puntuale la dimensione temporale del contagio, rischia di trasmettere un messaggio erroneo che colpisce l’attenzione ma non induce all’azione, restando confinato nell’area limbica delle reazioni emotive del nostro cervello.

Il tema è centrale nella comunicazione istituzionale, in particolare da quei soggetti politici che ricoprono incarichi pubblici, oltre che in questa fase la Protezione Civile o l’Istituto Superiore di Sanità, da cui ogni giorno gli italiani attendono aggiornamenti sull’evoluzione del Covid19, carichi di speranze e paure. Perché la leadership non la si misura solo sulla base del numero di voti ottenuti oppure dei follower sui social, ma in base alla propria capacità di mettersi alla testa degli altri, anche di chi sbaglia, e guidarli verso la giusta direzione.

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