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La cannabis coltivata in quantità minime con modalità casalinghe per la Suprema corte è fuori dall’area penalmente rilevante
di Giovanni Negri
27 dicembre 2019
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La coltivazione di marijuana, ma in generale di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, è depenalizzata se indirizzata al solo consumo personale. È questa la conclusione cui sono approdate le Sezioni unite penali della Cassazione, con una decisione nota per ora solo nel dispositivo, anticipato dall’informazione provvisoria n. 27 del 2019.
Piccole coltivazioni senza reato
In attesa delle motivazioni, le Sezioni unite scrivono che devono essere considerate escluse dall’area del penalmente rilevante «le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le
rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».
Nell’informazione provvisoria resa dopo l’udienza del 19 dicembre si precisa poi anche che il reato di coltivazione di stupefacente è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, «essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente».
Contrasto risolto
La decisione delle Sezioni unite, intervenuta su un caso di coltivazione di 2 piante di marijuana (una alta 1 metro con 18 rami, l’altra alta 1,15 metri con 20 rami) pone fine a un contrasto interno alla stessa Cassazione e alle Sezioni semplici. Secondo un primo orientamento per potere fare scattare il reato previsto dall’articolo 28 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990) non è sufficiente la semplice coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, ha raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è necessario verificare se questa attività è in concreto idonea a compromettere la salute pubblica e a
favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.
Secondo un altro orientamento, invece, la capacità offensiva della condotta di coltivazione consiste nella sua idoneità a produrre la sostanze per il consumo. Secondo questa linea interpretativa, non ha importanza la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la semplice conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza drogante.
Nel caso approdato alle Sezioni unite, la Corte d’appello aveva in realtà seguito quest’ultimo e più severo orientamento, visto che la coltivazione delle 2 piante era costata all’imputato una condanna a 1 anno di carcere e una multa di 3.000 euro. A venire valorizzata era stata l’offensività in concreto della condotta per effetto del grado di maturazione delle piantine; mentre era stata trascurata una valutazione dell’idoneità in concreto a produrre effetti droganti.